IL RICORDO
Padre Martino Siciliani, fotografato dal Giancarlo Belfiore, davanti ai suoi sismografi
C’è chi passa la vita a fare rumore e chi, come padre Martino Siciliani, la vita l’ha spesa ad ascoltare il silenzio. Quel silenzio profondo, antico, che si insinua nelle viscere della Terra e che, a tratti, esplode in un boato sordo e violento: il terremoto. Con la morte di padre Martino – direttore dell’Osservatorio Sismico Andrea Bina incastonato nei sotterranei dell’abbazia di San Pietro a Perugia – se ne va non solo un uomo di fede e scienza, ma un intero pezzo di coscienza umbra. Quella che non urla, ma misura, annota, riflette. Quella che non fa scena, ma fa scuola.
Classe 1938, direttore dell’osservatorio dal 1971, era l’ultimo custode di un sapere che affonda le radici in un tempo in cui il terremoto era ancora più figlio della superstizione che della scienza. Eppure, padre Martino, con quella sua calma benedettina e con lo sguardo paziente di chi sa che certe verità vanno scavate piano, ha insegnato a generazioni di umbri che la Terra non punisce: semplicemente vive. E il suo modo di vivere, a volte, è sussultare. Incontrarlo nel suo luogo di lavoro significava entrare in un’altra epoca.
Le stanze dell’osservatorio – stipate di carte, grafici, strumenti d’epoca e quel sismografo a pendolo del 1751 costruito da Bina che mostrava sempre a tutti con grande orgoglio – sembravano più il laboratorio di un mago del pre-Illuminismo che quello di uno scienziato di oggi. Ma lì dentro, tra bobine e aghi che tracciavano linee apparentemente indecifrabili, si svolgeva un lavoro essenziale per la sicurezza di tutti. E padre Martino era il gran sacerdote di questo culto della conoscenza, che aveva come dogma l’umiltà del dubbio e come liturgia la costanza della ricerca. Ci siamo conosciuti nei giorni subito successivi al terremoto di Gubbio del 29 aprile 1984.
Il Corriere dell’Umbria era nato da meno di un anno e per il giornale era uno dei primi grandi fatti di cronaca. Fu uno di quegli incontri che ti segnano: io con le domande da giovane cronista curioso; lui con le risposte semplici, nette, che smontavano una per una le teorie da bar sulla sismicità, le coincidenze, la Luna, le maledizioni. Da quel giorno ci fu sempre tra noi una telefonata nei momenti critici al punto che, ancora oggi, il 34060 è il primo numero che mi viene in mente. Quando la terra tremava, noi del Corriere chiamavamo prima lui, poi l’Ingv - l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia - cui spettava l’ufficialità delle rilevazioni e che, da ieri, lo ricorda in apertura del proprio sito web. Lo chiamavamo non per avere titoli da prima pagina, ma per avere spiegazioni vere. E lui non negava mai una risposta. Né a noi, né alla gente comune che lo cercava per capire se doveva dormire fuori o poteva restare in casa.
Ma fu quel settembre maledetto del 1997 che suggellò per sempre il nostro legame con lui. I giorni che precedettero la tragedia – quelli del rumore muto e sinistro che si sentiva sotto i piedi – restano incisi nella memoria come un incubo a cielo aperto. Colfiorito era diventato un villaggio sospeso: le persone, già dai primi del mese, non volevano più dormire in casa. “Sotto si sentono colpi di maglio”, dicevano, e non era un modo di dire. Era la descrizione precisa di un suono sordo, profondo, che rimbombava nel sottosuolo come se qualcuno stesse battendo un’enorme incudine nel cuore della Terra.
Ne parlammo subito a padre Martino, io, la collega Catia Turrioni e il fotografo Giancarlo Belfiore. Gli raccontammo della paura tangibile, dei materassi buttati nei garage, delle coperte nelle auto, delle canadesi comparse su quella collinetta (all’epoca disabitata) che si vede alle spalle di Colfiorito dall’incrocio dell’Hotel Lieta Sosta. E lui ascoltava, annotava, confrontava. Gli strumenti ancora non avevano registrato il disastro, ma lui già sapeva che c’erano tutte le condizioni per un forte rischio che la Terra si stesse “per scaricare come una molla” (parole testuali che non dimenticherò mai). “Tenetemi aggiornato”, ci disse. E noi lo facemmo.
Nei giorni seguenti fu lui a convincere la prefettura di Perugia, inizialmente scettica, a inviare alcune tende della Protezione civile. E poi arrivò quella notte. La notte del 26. Quando il sisma ruppe il silenzio e fece a pezzi il cuore dell’Appennino. La prima telefonata a padre Martino la feci appena un secondo dopo la fine della forte scossa. Abitando sulla collina di San Bartolomeo, poco fuori Foligno, in linea d’aria ero vicino all’epicentro.
“Forte, stavolta è stata molto forte… ho casa piena di polvere e calcinacci…” “Sì, è stata davvero forte anche qui a Perugia… Sentiamoci tra poco e ti dico dov’è l’epicentro e che magnitudo ha raggiunto…” Ma le linee telefoniche andarono rapidamente in tilt e non riuscii a richiamarlo nel giro di pochi minuti, ma un’ora e mezza dopo, da Collecurti. Qui due morti. Due coniugi. Schiacciati nel sonno dal crollo del tetto.
Con Giancarlo Belfiore eravamo arrivati rapidamente lì perché essendo stati già più volte a Colfiorito eravamo certi che l’epicentro sarebbe stato in quella zona. E da Colfiorito fu una pattuglia di guardie forestali a condurci nel paesino di Collecurti. Via radio avevano sentito che lì c’erano numerosi crolli. “I vigili del fuoco delle Marche parlano di case rase al suolo…” Collecurti era immerso nel buio più buio, ma in un angolo spiccava la luce, accecante, di una fotoelettrica alla quale facevano da contorno, di tanto in tanto, le scintille dei cavi di una linea elettrica aerea caduta a terra e che, sfiorandosi, si torcevano come serpi.
Eravamo pronti a raccontare, ma intanto, insieme alle due guardie forestali, aiutammo a scavare e a liberare i corpi delle due vittime l’unica squadra di vigili del fuoco che era riuscita a raggiungere quel lembo dimenticato delle Marche, a ridosso del confine con l’Umbria. Fu lì che, trovando un flebile segnale Gsm per lo Startac stando in bilico sulle macerie di una casa diroccata dal sisma, lo chiamai per la telefonata più drammatica.
“Padre Martino, ci sono due vittime”. Silenzio. Poi la sua voce, incredula: “Ma sei sicuro? Ho appena parlato col prefetto di Perugia. Dice che ci sono danni, ma nessuna vittima segnalata”. “Padre, siamo a Collecurti. Provincia di Macerata. Ma la notizia è certa: io e Belfiore siamo qui. Li abbiamo visti. E abbiamo aiutato i vigili del fuoco a tirarli fuori”. Fece una pausa, una di quelle sospensioni che servono a dare peso alle parole. “Lo avviso subito”. E poi, dopo appena cinque minuti, richiamò. “Raccontami bene. Voglio capire tutto”. Gli strumenti, intanto, continuavano a scrivere la cronaca di una notte senza tregua: le scosse non si erano fermate.
Grazie a quella telefonata e alla tempestiva verifica sul campo, padre Martino poté lanciare l’allarme sulla reale gravità della situazione. Prima ancora che lo facessero le autorità. Perché i vigili del fuoco, via radio erano riusciti solo a chiedere rinforzi, ma non potevano perdere tempo nell’aggiornare subito gli eventi: erano ancora impegnati a cercare eventuali altri corpi o sopravvissuti tra le macerie di quel paesino. Fu lui a rifiutare ogni merito e a raccontare questo aneddoto facendolo arrivare fino al Quirinale. E fu quella notte che capii quanto fosse essenziale il suo lavoro. E quanto fosse prezioso avere, sotto le fondamenta di San Pietro, un uomo che ascoltava davvero il cuore della Terra. E il cuore degli uomini.
A padre Martino non bastava il segnale dei sismografi: voleva il racconto, la testimonianza viva. Perché la scienza, per lui, non era un’arida successione di dati, ma un servizio al prossimo. Padre Martino aveva una convinzione ferrea: i terremoti non si possono prevedere, ma i danni sì e si possono anche prevenire. E qui si svela la filosofia profonda del suo lavoro. In un’epoca dove si vuole tutto e subito – anche la previsione precisa del sisma come se fosse il meteo di Google – lui insegnava la pazienza. “Non possiamo sapere quando – diceva – ma possiamo sapere come. E prepararci. E soprattutto dobbiamo preoccuparci di più di quelle zone che sappiamo essere altamente sismiche, ma non vedono rilasci di energia da troppo tempo. La memoria e la storicità sono importantissime”.
È questo l’insegnamento più grande: che la scienza non è magia, ma metodo. Che la prevenzione non è fede cieca, ma esercizio quotidiano di responsabilità. Che la natura non è nemica da combattere, ma maestra da ascoltare. Eppure, oggi, mentre si spengono le luci per il direttore storico dell’osservatorio perugino, un uomo che per decenni è stato il cuore pulsante della sismologia umbra, dobbiamo chiederci se stiamo davvero raccogliendo il testimone. Se la politica ha capito il valore della ricerca lenta, capillare, fatta nei sotterranei e non nei talk show. Se abbiamo ancora voglia di finanziare chi, nel silenzio, lavora per evitare che le tragedie si ripetano.
Perché padre Martino non cercava la previsione infallibile: cercava la consapevolezza. E forse è proprio questo il terremoto più potente che ci ha lasciato in eredità. Un sisma interiore, culturale, che ci obbliga a guardare il mondo con occhi nuovi. E con il rispetto dovuto a chi, nella profondità di un’abbazia, ha saputo ascoltare le profondità del nostro pianeta. Addio, padre Martino. La Terra ora può anche tremare, ma noi, grazie a te, tremiamo un po’ meno.
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