Cronaca
Per capire Padre Martino, che sabato mattina alle 5,30 ha cessato la sua vita terrena (oggi alle 11,30 i funerali nella sua San Pietro), ultimo benedettino dell’Abbazia di San Pietro, un millennio dopo Pietro Vincioli, bisogna conoscere dettagliatamente la storia della basilica perugina e dei successori di San Benedetto, i contorni del loro “potere”, della loro riottosità a sottoporsi all’autorità del vescovo e persino del papa di turno, sia quando erano un vero esercito di 85 monaci, attorno al 1400, sia in seguito. A cominciare da Gioacchino Pecci, vescovo di Perugia diventato poi papa Leone XIII, che non solo fece arrivare in città le truppe mercenarie per combattere contro gli insorti, ma poi celebrò solo il funerale di alcuni soldati svizzeri, ignorando, di fatto, i 26 perugini uccisi barbaramente. E su questo solco, per cose molto meno rilevanti, Padre Martino ha avuto (e forse creato, ad essere onesti) problemi a iosa con i vescovi Chiaretti e Bassetti.
Il primo, contestato direttamente dall’altare, durante l’omelia, perché si rese “colpevole” di aver tolto la gestione della parrocchia di San Costanzo ai benedettini “dopo mille anni, adducendo giustificazioni assurde. Tipo che il parroco, il nostro monaco don Celestino che l’aveva guidata per 40 anni non partecipava alla riunioni serali della Diocesi. Ma noi ci alziamo alle 5 tutte le mattine, non abbiamo tempo per le chiacchiere all’ora di cena. Siamo rimasti in pochi, ma non stiamo con le mani in mano. Anche ieri ero sul tetto della chiesa per aggiustarlo”. Il cardinale Bassetti, che peraltro ieri l’ha ricordato giusto dall’altare di San Costanzo, dove stava celebrando un battesimo, finì nel mirino, se così si può dire, per avergli ordinato di non celebrare matrimoni in quanto San Pietro non è una parrocchia. Dietro c’era la solita anarchica volontà di Martino nel disbrigo di certificati, carte bollate, documenti vari, ma lui, che aveva il pregio di sfoderare un sorriso finemente sarcastico, anche quando diceva cose pure pesanti ce la spiegò così: “Su questo tema specifico, il cardinale può dire ciò che vuole, ma il diritto canonico ci dà e mi dà ragione. Ricordo che in passato ci fu pure una bolla papale che stabilì come noi fossimo soggetti solo alla Chiesa di Roma. E sai perché? Perché dopo l’Unità d’Italia, quando tutte le case e le congregazioni religiose italiane furono soppresse, noi fummo l’eccezione. Probabilmente per i meriti guadagnati sul campo con gli insorti perugini. Non sono un ribelle, ma l’autonomia benedettina è nei fatti”.
E giù una stoccata ai mercenari del papa: “Erano così stupidi e ignoranti che nemmeno immaginavano che dietro al nostro grande organo ci fosse una stanza enorme. Mica era un dipinto. Comunque andarono oltre e quantomeno le persone che avevamo nascosto lì dentro poterono fuggire travestiti da monaci”. Negli ultimi tempi, dimagritissimo e un po’ malfermo aveva comunque continuato a confessare, ancorché durante la celebrazione della Messa (il che sarebbe sconsigliato, ma Martino era Martino); a ricevere amici, gruppi (alla festa della Finanza uno di loro gli chiese come fare per diventare monaco), turisti, e naturalmente “i potenti della città, che mi cercano tutti e mi conoscono tutti. Ma questo lo sai, no?”.
Al cronista ogni tanto ha regalato qualche confidenza personale, inedita: “Ho sempre voluto fare il religioso, nonostante il mio papà Francesco fosse ateo, dedito soprattutto al lavoro, alla gestione di tre negozi, di alimentari e di riparazione di radio. Mamma si chiamava Incoronata e per eccesso di gelosia papà non la fece studiare, ma io le davo lezioni di matematica in gran segreto e così lei, pur essendo analfabeta, imparò a gestire gli affari di famiglia. Parliamo di parecchi milioni di lire. Aveva una memoria prodigiosa, ricordava quanti chili di farina o cereali avevamo comperato, quanto erano costati al chilo… ma questo mondo mi andava stretto. Così, aiutato da mia sorella Maria, che stava diventando monaca di clausura col nome di suor Margherita, e dal vescovo di Muro Lucano, trovammo questa soluzione. Ufficialmente ‘salivo’ per studiare, ma in effetti entrai in questa Abbazia nel 1952 e non ne sono più uscito. Ripensamenti da allora? Macché. Sai cosa dissi a papà che mi urlò ‘cosa posso sperare da te, a cosa mi servi se non farai neppure figli?’. Che fare i figli è molto facile, non farli è più difficile”. Ecco, se avessimo un piccolo dubbio sul perché fosse diventato benedettino, la sua risposta non ammise perplessità: “Con Margherita vagliammo molte ipotesi. Domenicano? No, loro rappresentano l’Inquisizione, una macchia della Chiesa. Gesuita? Sono troppo politicizzati. Francescano? Bravi religiosi, ma non amano lavorare. Alla fine l’ora et labora; benedettino, per giunta nella patria di San Benedetto, m’è sembrata la scelta migliore”. Se n’è andato sul letto di ferro battuto appartenuto a Luigi Manari, casualmente l’ultimo abate di San Pietro, alla cui morte, nel 1890, tutti i beni monumentali, fondiari e religiosi passarono alla Fondazione Agraria. Riposa in pace Martino, ribelle e ortodosso nel solco di San Benedetto.
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