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L'intervista

Don Samy, il prete portiere si racconta: dalla nuova avventura con il Real Cannara all'incarico di rettore dell'abbazia di San Pietro a Perugia, fino al conflitto in Medio Oriente

Il parroco difende i pali della squadra di calcio a 5 in Serie C1 ed è il primo sacerdote a subentrare ai monaci benedettini in basilica, dopo più di mille anni

Gabriele Burini

25 Agosto 2025, 19:42

Don Samy, il prete portiere si racconta: dalla nuova avventura con il Real Cannara all'incarico di rettore dell'abbazia di San Pietro a Perugia, fino al conflitto in Medio Oriente

Don Samy, rettore dell'abbazia di San Pietro a Perugia

C’è una data che i calciatori dilettanti segnano in rosso nel cuore dell’estate: è quella dell’inizio della preparazione per la nuova stagione. Quella, in sostanza, dove si comincia a faticare. Lo sa bene Samy Abu Eideh, per tutti don Samy, rettore dell’abbazia di San Pietro a Perugia e nuovo portiere del Real Cannara, squadra che milita nel campionato di Serie C1 di calcio a cinque. “In questi giorni la fatica si sente, eccome se si sente, riprendere dopo l’estate non è mai semplice”, racconta con un sorriso don Samy.

- Come è stato accolto nello spogliatoio?
Sono sempre molto sorpreso dalla cordialità e dall’accoglienza delle persone e degli altri calciatori, vedo tanto rispetto e simpatia. Il mister mi ha detto che la mia presenza per il gruppo è importante, sento anche un po’ di responsabilità. Ovviamente sono lì come giocatore e cerco di dare il meglio, però penso che dare una testimonianza anche molto semplice, discreta, di amicizia e di vicinanza di Chiesa a chi magari frequenta meno, sia molto importante. I ragazzi mi hanno subito integrato nel gruppo e sono felice anche perché mi fa molto bene fare sport. Io dico sempre che preferisco fare un allenamento in più che arrabbiarmi, ma andare al campo è anche è un momento di grande socialità, unisce con tante persone che magari in chiesa non vengono. Nello spogliatoio trovo sempre tanta simpatia, rispetto e anche un po’ di curiosità.
- Del tipo?
Mi fanno una serie di domande strane, da quante ore prego al giorno, quando dico la messa, se sono capace di tramutare l’acqua in vino. Le domande più scomode sono quelle sul mio celibato, su come faccio a stare senza una donna.
- E come risponde?
Rispondo sempre con un po’ di ironia, perché nello spogliatoio lo spirito è goliardico. Poi spiego che il celibato, per me, non è una rinuncia sterile ma una scelta di libertà per amare tutti con cuore indiviso. È un tema che incuriosisce molto e mi permette di testimoniare la bellezza di questa vocazione.
- Ma qualcuno è “impaurito” dall’avere un sacerdote in spogliatoio e quindi, in un ambiente in cui si impreca molto, ci sta più attento?
Che siano impauriti no, ma che sotto sotto ci stiano più attenti sì, qualche volta si mordono la lingua. Quando gli esce un’imprecazione mi chiedono scusa, c’è veramente rispetto e attenzione. Poi queste sono situazioni che capitano soprattutto se qualcuno si arrabbia, ancora non c’è stato modo di farlo, vedremo durante le partite (ride, ndr). Proveremo comunque a vincerne più possibile così da evitare qualsiasi arrabbiatura.

Don Samy ai tempi del Po' Bandino

- Tornando alla sua missione principale, da quasi un anno è rettore dell’abbazia di San Pietro. Lei è il primo dopo più di mille anni di gestione da parte dei monaci, come sta andando?
L’abbazia è stata retta dai monaci per più di mille anni, è una abbazia benedettina. Dall’Unità d’Italia è entrata a far parte della Fondazione per l’istruzione agraria, ma ha continuato a ospitare i monaci, che il 20 giugno del 1859 hanno dato rifugio ai partigiani della resistenza anti papalina. I monaci sono stati sempre ben visti dalla popolazione e hanno continuato a risiedere lì. Il problema è che si erano ormai ridotti all’osso, padre Martino Siciliani era l’ultimo monaco, era molto malato (è scomparso lo scorso 3 maggio, ndr) e non poteva più garantire la celebrazione della messa. Quindi l’idea è stata, in accordo col vescovo, che io potessi andare lì come prete diocesano. Il vero cambiamento epocale è che siamo subentrati ai monaci dopo più di mille anni, molti lo hanno visto con dispiacere, giustamente, perché a Perugia non c'è più una presenza del monachesimo benedettino. Però la cosa positiva è che la Fondazione, che è la proprietaria, non ha voluto semplicemente lasciare la chiesa come un museo, ma che si continuasse a dire messa. E quindi hanno mandato me, anche perché io da quando c’è l’arcivescovo Maffeis collaboro con l’Università di Perugia, con il dipartimento di Filosofia, come assistente del professor Marco Moschini. Mi hanno detto che potevo stare a San Pietro anche per accogliere gli studenti, perché quello è un luogo universitario. E’ stata un’idea molto bella quella dell’arcivescovo Maffeis, di puntare su un incontro tra Chiesa e cultura e mettersi in dialogo con il mondo universitario. Tra l’altro il prossimo rettore, Massimiliano Marianelli, è stato un mio professore, e diventerà anche il presidente della Fondazione agraria.
- Vi siete già sentiti?
Sì, mi sono congratulato con lui dopo l’elezione. Poi ogni tanto viene a correre in Corso Cavour e capita di incontrarsi. Tra l’altro c'è anche la sindaca Vittoria Ferdinandi che abita davanti a noi, io ho studiano filosofia con Vittoria, siamo coetanei. Ci incontriamo spesso la mattina: io con il rosario in mano e lei con il suo cane. Ci scherziamo su e questo crea un bel clima di vicinanza e amicizia.

Don Samy con il premio di Miglior portiere al Torneo dei Rioni di Po' Bandino

- Cambiamo argomento: suo padre è originario della Palestina, come vivete il conflitto in Medio Oriente che sta massacrando milioni di innocenti?
Io lo vivo indirettamente, mio papa è giordano, di Nablus, una città a nord di Gerusalemme. Abbiamo avuto sempre attenzione per quello che accade nel conflitto israelo-palestinese, anche se noi figli, io ho una sorella più grande, non lo sentiamo direttamente come mio padre. Lui è sempre in ricerca di informazioni, connesso con la tv e sui social. Sento, anche dai racconti di mio padre, il dolore di un popolo che ha visto le sue terre occupate e la propria vita sconvolta. Un popolo fragile, con pochi mezzi, si è trovato a fronteggiare forze ben più potenti, sostenute anche da equilibri geopolitici internazionali complessi. Comprendo la storia drammatica del popolo ebraico dopo la Shoah, ma non posso non vedere come, in Medio Oriente, si siano generate nuove forme di ingiustizia e di oppressione. Non parlo in termini razziali, ma politici e ideologici: quello che percepisco è soprattutto una profonda ingiustizia umana. È una realtà complessa, dove entrano in gioco storie, ferite e interessi politici. Il mio desiderio, da sacerdote, è che si trovino strade di pace e di giustizia per tutti.
- Papa Leone XIV ha subito messo la pace al centro della sua missione. Cosa può fare?
Il nome Leone è profetico, perché ci vuole veramente tanto coraggio per combattere per la pace. Oggi è molto più facile reagire con la violenza e pensare di aver ragione dell’altro con la violenza, piuttosto che intavolare un dialogo. Sul momento sembra pagare di meno, perché sembra un compromesso, ma alla lunga è molto più efficace. La guerra crea solo dei disastri. Io credo che Papa Leone abbia questo coraggio, di vedere a lungo termine delle strategie diplomatiche, di dialogo. Poi ovviamente è anche una questione culturale. Quando da bambino andavo a trovare i miei parenti in Terra Santa, ricordo che i miei cugini giocavano a Fifa 94 scegliendo sempre una squadra contro Israele. Io non capivo bene perché, e loro mi dicevano che era legato alla situazione che vivevano. Col senno di poi, mi rendo conto che persino un gioco di calcio diventava il riflesso di una tensione che non era solo politica, ma che entrava nella vita quotidiana, nella cultura, persino nell’immaginario dei bambini. È un esempio concreto di quanto questa contrapposizione sia radicata e vissuta fin da piccoli.
- Qual è invece il messaggio più forte lasciato da Papa Francesco?
Una delle frasi più famose, perlomeno per noi sacerdoti, di Papa Francesco è quella che un sacerdote deve avere l’odore delle pecore. Non bisogna vivere i ruoli nella Chiesa con superiorità. Io papa Francesco l’ho visto come un grande parroco del mondo, che ha insegnato a tutti noi sacerdoti a metterci al servizio ai piedi degli altri, condividendo le gioie, i dolori e l’umanità delle persone, tante cose che io faccio anche giocando a calcetto. Io lo sento profondamente dentro il mio ministero, perché sento che sono parte di un popolo, che vive una vita quotidiana, che ha i suoi problemi.
- Il 2025 è l’anno del Giubileo della Speranza: qual è la speranza di Don Samy?
Durante il Giubileo dei Giovani ho chiesto al Signore il dono di un sacerdozio santo. Per me significa trasmettere Dio agli altri: che attraverso di me, e nonostante i miei limiti, le persone possano incontrare Gesù. Il mio desiderio è lasciar trasparire il suo amore e la sua pace, perché ogni sacerdote è chiamato a essere segno che conduce a lui.

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