Tutti parlano della sconfitta. Perché perdere una finale così, dopo cinque set e cinque ore e mezza di battaglia, brucia. Ma continuare a raccontare Jannik Sinner come uno sconfitto significa non aver capito nulla di quello che è successo a Parigi. O, peggio, volerlo ignorare. Perché quella andata in scena sul Philippe Chatrier è stata una delle vittorie più chiare della sua carriera. Senza trofei, ma con un messaggio preciso: il numero uno del mondo è anche il più completo.
Il Roland Garros ha proposto un paradosso evidente. Il pubblico tifava per Carlos Alcaraz come se fosse il ragazzo contro il colosso, Davide contro Golia. Lo stadio esplodeva a ogni suo punto, lo incitava come fosse lui a dover compiere l’impresa. Eppure, parliamo del tennista più precoce della storia a diventare numero 1, nel 2022, a soli 19 anni. Uno che, a 21, ha già vinto tre Slam su tre superfici diverse: cemento, erba e terra (US Open, Wimbledon, Roland Garros). Altro che outsider. Giocatore magico che aveva appena conquistato Roma, ma non certo underdog.
Eppure Sinner, nonostante la vetta del ranking, è entrato in campo come l’uomo da battere. Il freddo. Il robot. Il numero 1 che non si può amare. E lui, fedele al suo stile, ha fatto ciò che fa meglio: ha zittito.
Due set perfetti, giocati con la solita calma imperturbabile, mentre lo stadio cercava di spingerlo fuori strada. Sfiga e fisico hanno presentato il conto. Fatica e tre match point non sfruttati. Ma la lezione era già iniziata.
Perché Sinner, oggi, non è più un talento in divenire. È uno che sulla
terra rossa – la superficie su cui era più vulnerabile – ha compiuto una trasformazione. L’anno scorso non era pronto. Quest’anno è arrivato in finale a Roma dopo tre mesi di stop, ha dominato a Parigi in semifinale contro Djokovic, ha retto il palcoscenico della finale più lunga della storia del torneo e ha costretto Alcaraz a scavare nel fondo del suo enorme repertorio per portarla a casa. È questo che fa la differenza.
Nel 2022 Jannik era un progetto, un ragazzo fuori dalla top ten (nono posto al massimo, quasi un intruso nell'eletta schiera) che inseguiva le star. Due anni dopo, ha superato tutti.
Alcaraz, Medvedev, Zverev, Tsitsipas, Rune. Nessuno ha avuto la sua costanza, nessuno la sua crescita. E lo ha fatto senza cercare il personaggio.
Perché Sinner non è costruito per piacere. Non urla, non strappa magliette, non cerca applausi facili. Non ha bisogno di esultare in faccia all’avversario o di trasformare ogni match in uno spettacolo. Sta in campo, si muove, gioca. E vince. Per questo è l’antieroe perfetto.
Lo ha dimostrato anche dopo la sconfitta in una infinita lezione di stile. Nessuna retorica, nessuna scusa, nessuna posa da martire. Solo lucidità e rispetto.
“Complimenti a Carlos - ha detto - ha giocato una partita straordinaria. È stata una battaglia incredibile. Qualche tempo fa avrei firmato per essere qui». E poi, con la calma di chi non cerca alibi: “Il risultato fa male, certo, ma accetto ciò che è successo. Ho cercato di resettare ogni set, di restare nel presente. Quando finiva, finiva. E andavo avanti”.
È questa la forza di Sinner. Non l’istinto, ma il controllo. Non la teatralità, ma la disciplina. Non la rabbia, ma la lucidità; rara anche a caldo.
Chi oggi rimugina su quella sconfitta, dovrebbe chiedersi cosa ha davvero visto. Un atleta che cade fisicamente ma non mentalmente. Che regge la pressione di una finale
Slam da numero 1, sulla superficie che gli è meno amica. Che guarda in faccia il futuro e non si tira indietro.
Se questa è una sconfitta, allora è tempo di riscrivere il significato della parola vittoria.
Perché quella vera, oggi, è di Sinner. Anche senza la coppa.