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Festival dei Due Mondi

A Spoleto debutta il thriller dell'anima con Stefania Rocca

Da venerdì 11a domenica 13 luglio al San Simone in scena L'amore non lo vede nessuno di Giovanni Grasso per la regia di Piero Maccarinelli

Sabrina Busiri Vici

08 Luglio 2025, 14:54

In scena

Stefania Rocca

Il Festival dei Due Mondi di Spoleto ospita da venerdì a domenica, al San Simone, il debutto de L’amore non lo vede nessuno, un’opera firmata Giovanni Grasso, scrittore, giornalista e autore teatrale, che porta in scena un testo intenso e stratificato, a metà tra il thriller e l’indagine esistenziale che nasce dal libro stesso di Grasso. Abbiamo incontrato l’autore prima del debutto per farci raccontare la genesi del lavoro, il rapporto con il regista Piero Maccarinelli e quel legame profondo con l’Umbria che dura da generazioni.


- L’amore non lo vede nessuno, è il titolo, una frase potentissima …
E’ una frase di Sant’Agostino in cui ci spiega che Dio non si vede, ma neppure l’amore si vede tuttavia, si riflette nei volti degli innamorati. Lo spettacolo parla di amori diversi, l’amore per il prossimo, l’amore carnale e l’amore che diventa tossico, dominio e manipolazione.
- La filosofia di Sant’Agostino è un riferimento costante?
Sì, anche se in modo sottile. È una figura che aleggia per tutta la narrazione. Prima di diventare vescovo fu un grande peccatore, e quindi ha conosciuto molte forme d'amore: quello carnale, quello paterno — ha avuto un figlio — e infine l’amore divino. Il suo percorso è un filo conduttore in filigrana.
- Questo elemento si riflette anche nella messa in scena?
Assolutamente sì. Sant’Agostino è una delle chiavi simboliche per leggere anche gli aspetti più “evangelico-filosofici” dell’opera, che si intrecciano al mistero, alla narrazione del giallo, con profondità e delicatezza.
- Debuttare al Festival dei Due Mondi non è mai una scelta casuale. Come nasce questa decisione?
È merito di Monique Veaute, che ha avuto la pazienza di leggere il testo, apprezzandolo... È stata lei, tra l’altro, a suggerirmi un nuovo inizio. Abbiamo seguito anche questa sua indicazione drammaturgica..
- Il passaggio dalla pagina al palco è stato pensato fin dall’inizio?
Esattamente. A differenza del mio romanzo Il caso Kaufman, dove ho scritto prima il libro e poi la trasposizione teatrale, in questo caso ho scritto direttamente un testo che avesse una vocazione teatrale. Il romanzo è pensato per essere messo in scena: prevalgono i dialoghi, ci sono due luoghi principali — un bar e la casa di Silvia — dove si svolgono le scene più importanti.
- L’opera l’ha definita “thriller esistenziale”. Ci spiega questa definizione?
La struttura è quella del giallo: c’è una morte sospetta, un mistero da svelare, colpi di scena, un uomo enigmatico, una presunta vittima e un presunto carnefice. Ma non è un giallo puro, alla Agatha Christie. Non si chiude con la scoperta del colpevole. Anzi, da quel punto inizia un’altra storia: quella della consapevolezza, del confronto con sé stessi e con gli altri. Per questo lo definisco un thriller esistenziale.
- Qual è il cuore emotivo di questa vicenda?
È una storia di anime inquiete. Tre personaggi molto diversi tra loro, con personalità e vissuti lontani, che faticano a comprendersi ma che condividono la fragilità umana. Non ci sono né colpevoli né innocenti assoluti. Sono persone, come tutti noi, fatte di contraddizioni, forze e debolezze. Volevo raccontare proprio questo.
- Terza regia di Maccarinelli su un suo testo. Com’è evoluto il vostro rapporto?
La nostra collaborazione è iniziata con Fuoriusciti, un testo sul rapporto tra Sturzo e Salvemini. Lui l’ha letto e gli è piaciuto molto. Da lì è nato un dialogo profondo, anche umano, non solo artistico. Piero è un regista curioso, attento al significato profondo delle parole, molto rispettoso del testo. Lavoriamo in modo molto collaborativo: vado alle prove, ci confrontiamo, cambiamo battute, tagliamo, modifichiamo insieme. È un work in progress continuo.
- Ha avuto voce anche nella scelta del cast?
No, quella è una responsabilità del regista e della produzione. Però il personaggio di Eugenia l’ho scritto pensando a Franca Penone, che aveva già recitato in un mio testo precedente. Sugli altri interpreti — Stefania Rocca e Giovanni Crippa — non ho avuto un ruolo decisionale, ma devo dire che sono professionisti straordinari.
- Lo spettacolo va in scena allo Spazio San Simone, luogo suggestivo. Che valore assume l’ambientazione?
La scenografia alterna due luoghi: il bar e la casa. Luoghi fisici riconoscibili ma anche universali. Non è “quel” bar o “quella” casa: sono spazi archetipici, quasi come nel teatro medievale. Sebbene la storia sia ambientata tra Milano e il suo hinterland, potrebbe svolgersi ovunque, in qualunque tempo.


- Pensa che questo spettacolo possa parlare anche a un pubblico internazionale, tipico del Due Mondi?
Credo di sì. L’ambientazione milanese è solo funzionale alla storia. La dinamica tra città e provincia, tra centro e periferia, è universale. Avrei potuto ambientarlo a Parigi o New York. È una storia che può risuonare ovunque, perché parla dell’essere umano, del conflitto interiore, della caduta e della possibilità di redenzione.
- Come pensa che reagirà il pubblico?
I riscontri sul libro sono stati positivi, ma certo il pubblico teatrale è diverso dai lettori. Spero che si possano immedesimare nella storia o nei personaggi. Non credo nei messaggi morali dell’arte, ma se proprio devo forzare una lettura direi che questo testo racconta come chi si crede perfetto e disprezza gli altri alla fine rischia di ricredersi. E che forse l’unico modo per perdonare se stessi è imparare a perdonare gli altri.
- È un frequentatore abituale del Festival di Spoleto?
Da ragazzo sì, ci venivo spesso. Concerti, spettacoli. Ricordo anche esibizioni jazz al Caio Melisso. Ora ci torno con grande piacere: sarò sicuramente presente a tutte e tre le repliche dello spettacolo e al concerto di chiusura di Mahler.


- Un legame profondo, quello con l’Umbria. Da dove nasce?
La mia famiglia è originaria della Sicilia, ma mio nonno materno negli anni Venti si trasferì a Roma e comprò dei terreni in Umbria, nella zona di Todi. Lì è rimasta una casa, alcune piccole proprietà condivise con i miei cugini. I miei genitori e diversi zii sono sepolti nel cimitero di Duesanti. Ci siamo anche sposati a Todi. È diventato il luogo del cuore della nostra famiglia.

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