L'intervista
Lo spoletino Michele Montesi
Spoleto e Porto distano più di duemila chilometri, ma per Michele Montesi a capital do norte è ormai diventata casa. È qui, infatti, che l’ingegnere umbro ha trovato il suo posto nel mondo dopo aver trascorso gran parte della sua vita tra il Cuore verde, Milano e New York. Da un anno e mezzo, Montesi ricopre il ruolo di Chief Strategy Officer dell’FC Porto, dove guida la visione strategica e le principali iniziative di sviluppo del club, attualmente in testa al campionato portoghese grazie (anche) al lavoro di un altro italiano, mister Francesco Farioli.
- Dottor Montesi, fare il calciatore è il sogno di quasi tutti i bambini, ma pochi immaginano una carriera da dirigente. È stato così anche per lei?
Il calcio è sempre stato una grande passione. Da bambino giocavo, poi ho scelto il nuoto a livello agonistico, ma una volta lasciato l'agonismo sono tornato in campo: il legame con questo sport non si è mai interrotto. Da piccolo sognavo di fare il calciatore, ma col tempo ho capito che la mia strada sarebbe stata quella manageriale. Il ruolo che ricopro oggi in un grande club come il Porto mi permette di vivere quel sogno da un’altra prospettiva. E poi guardo il lato positivo: la carriera da dirigente può durare più a lungo e oggi sono in un'età che mi permette di godermi appieno il momento.
- Come è strutturato il Porto?
Il Porto è un membership club, cioè una società di soci che elegge il presidente ogni quattro anni. Il presidente, a sua volta, nomina il Consiglio di amministrazione e il Comitato esecutivo, che è il principale organo di governance del club. Nel 2024 si sono tenute le elezioni più partecipate della storia del club, con circa 30.000 soci al voto. André Villas-Boas è stato eletto presidente dopo 42 anni di gestione Pinto da Costa: un passaggio storico che ha segnato l’inizio di una nuova era per il Porto.

- E come è entrato a far parte dell'organigramma?
Ho conosciuto André Villas-Boas alla Columbia Business School di New York nel 2022, durante un Executive Master in Business Administration (Mba). Da lì è nato un dialogo professionale che si è sviluppato nel tempo: all’epoca lavoravo come consulente in Monitor Deloitte e seguivo progetti strategici per diversi club italiani. In un primo momento l’ho supportato nella fase di campagna elettorale e, dopo la sua elezione, mi ha proposto di entrare nel Comitato esecutivo del club.
- Di cosa si occupa esattamente?
Tecnicamente sono Chief Strategy Officer: coordino la pianificazione strategica e l’attuazione del piano di sviluppo del gruppo. In pratica significa disegnare le priorità, tradurle in iniziative concrete e assicurarsi che vengano realizzate. È un approccio molto più strutturato rispetto a quello adottato dalla maggior parte dei club europei – e anche più complesso – ma proprio per questo rappresenta una sfida entusiasmante.
- Quanto è difficile gestire una squadra di calcio a livello finanziario? E come si può mantenerla competitiva?
È una delle sfide più grandi. Il calcio moderno richiede equilibrio tra risultati sportivi e sostenibilità economica. Il modello del passato, basato sull’indebitamento, non funziona più: oggi non si possono ottenere risultati duraturi senza solidità finanziaria. Il Porto, come altri club europei di seconda fascia (quindi esclusi i primi 10), deve competere con risorse più limitate, e per questo puntiamo su efficienza, valorizzazione dei talenti e sviluppo delle nostre academy. Stiamo portando avanti una ristrutturazione finanziaria importante e, in parallelo, un piano di rilancio del settore giovanile, anche attraverso l’apertura di academy internazionali. Il Portogallo è un Paese con una tradizione calcistica straordinaria, ma con un mercato interno limitato: per restare competitivi dobbiamo saper cercare talento in tutto il mondo.
- Vede differenze tra il modo di fare calcio in Portogallo e in Italia?
Ci sono differenze culturali e strutturali evidenti. In Portogallo c’è grande attenzione al talento e alla formazione dei giovani: le grandi società investono molto nei settori giovanili, che alimentano con continuità le prime squadre. È un modello sostenibile e orientato al lungo periodo, che permette di restare competitivi anche con risorse più limitate. In Italia, invece, questa filiera si è in parte persa: le rose vengono costruite soprattutto acquistando giocatori formati in altri settori giovanili. È una scelta che può pagare nel breve, ma rischia di indebolire la struttura del movimento nel tempo.
- Come la Juventus, che ha ceduto giovani di valore per acquistare all’estero giocatori simili o di livello inferiore…
Esatto, è un caso emblematico. La Juventus ha venduto giocatori come Kean, Huijsen o Soulé a valori medi, per poi investire cifre molto più alte su profili esterni di livello paragonabile. È una logica che posso comprendere per un top club come la Juventus, che deve mantenere un respiro internazionale e competere stabilmente ai massimi livelli, ma per società di fascia media avrebbe molto più senso investire con continuità sui giovani cresciuti nel proprio vivaio.

- E questo incide anche sul livello della Nazionale?
Sì. Il Portogallo oggi è più competitivo proprio perché ha costruito un sistema che valorizza il talento locale e lavora in modo coerente, a piramide, dalla base alla prima squadra. È un Paese piccolo ma con una qualità straordinaria, e i risultati si vedono.
- In Italia c’è un esempio simile nell'Atalanta…
È il caso più virtuoso. In vent’anni è passata dal lottare per non retrocedere a vincere l’Europa League. È la dimostrazione di quanto una visione a lungo termine possa trasformare un club.
- Utilizzate l’intelligenza artificiale?
Sì, ormai è presente in ogni ambito e rappresenta un punto di non ritorno. Quando siamo arrivati, il club era piuttosto indietro sul piano tecnologico, ma oggi stiamo recuperando rapidamente quel gap. Utilizziamo l’AI per analisi di performance, scouting, match analysis, ma anche in aree corporate come marketing e analisi di trend di mercato. È uno strumento che sta cambiando radicalmente il modo di operare.
- Non crede però che, nello scouting, l’occhio umano resti insostituibile?
L’intelligenza artificiale e i dati sono alleati preziosi, ma la sensibilità umana resta decisiva. L’algoritmo valuta elementi oggettivi; l’occhio esperto, invece, sa cogliere “indizi” che non emergono nei dati: atteggiamenti, carattere, compatibilità con l’ambiente. L’ideale è integrare tecnologia e intuizione per ridurre errori e fare scelte più consapevoli.
- Lei è nato a Spoleto: qual è oggi il suo legame con la città e con l’Umbria?
È sempre molto forte. Sono nato e cresciuto a Spoleto, dove vivono ancora i miei genitori. Purtroppo torno meno di quanto vorrei: il calendario di una squadra calcistica è molto intenso e i viaggi sono continui, quindi non è semplice trovare il tempo. Ma porto con me tanti valori umbri – equilibrio, concretezza, senso di comunità – che ritrovo ogni giorno nel mio modo di essere e di lavorare.
- Segue il calcio umbro?
Per quanto posso, sì. Ho un legame affettivo con la Ternana: ricordo bene gli anni in Serie B, quando andavo allo stadio con mio padre. Oggi però vedo una situazione complicata, a Terni come a Perugia: due piazze importanti, ma con stadi vuoti e dirigenze poco radicate nel territorio. È un peccato, perché con progetti seri avrebbero potuto consolidarsi in Serie B e crescere nel tempo. Penso all’Atalanta: la ricordo al Liberati in Serie B, oggi gioca in Europa e vince trofei. Ecco, un percorso che dimostra quanto visione e continuità possano fare la differenza.
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