Non era solo un allenatore. Giovanni Galeone era un modo di pensare. Uno che non ha mai accettato di trasformare il calcio in un mestiere di obbedienze. Anche a Perugia, 30 anni fa spaccati (era arrivato a ottobre 1995) lo chiamavano il Profeta. Come a Pescara dove aveva vinto due campionati, come a Udine dove ne aveva portato a casa uno.
E profetico, Galeone, lo era davvero: perché vedeva il gioco e gli uomini prima degli altri, perché faceva il 4-3-3 quando in Italia era quasi un’eresia.
Un pomeriggio gli chiedemmo perché la squadra (a sorpresa) non si fosse allenata. “Campo pesantissimo, siamo decimati e c’è il rischio di infortuni, ma se volete possiamo parlare di calcio”, disse.
Parlava di Zeman e Sacchi (lo aveva battuto col Pescara quando Arrigo era al Parma), di vino, mare e letteratura, dell’Inter che lo aveva cercato (“ma non sceglieranno mai me”) anche di giocatori che un giorno – a suo dire – sarebbero diventati allenatori. Raccontava di un certo Gasperini e “vedrete che Allegri sarà un ottimo tecnico, col profilo da grande squadra”. Inventò Giunti regista, si fece prendere un mancino a sinistra (Briaschi) con Pagano a destra, Suppa in mezzo e linea a 4 dietro con ai lati uno che aggredisce e l’altro che cuce. Giocava a zona (difendevano in due) con i lanci di Max e di portieri non parlava mai. Prese una squadra spacciata e la portò in Serie A in sei mesi.
Uno da imprese, da provinciali, d’attacco (con controindicazioni del caso), nato per stupire, Galeone.
Aveva il coraggio di rischiare, di far giocare la palla invece di rincorrerla, di difendere un’idea anche quando non conveniva. Il suo calcio era libertà: non improvvisazione, ma pensiero. Una forma di resistenza ai conformismi di un sistema dove tutti parlavano di moduli e nessuno più di uomini. Galeone allenava persone, non numeri.
Lo chiamavano anche “maestro”, nel senso più raro: capace di vedere il talento negli altri e di valorizzarlo. Lo ricordiamo in spider, con la sigaretta tra le dita e l’ironia pronta, sempre un passo indietro rispetto alle mode. Il Marinaio era anticonvenzionale, non per ideologia. Di rottura; un precursore, perché si è così.
Non cercava consensi, parlava piano ma diretto. Galeone aveva una leggerezza che nel calcio non esiste più: sapeva sorridere delle vittorie e capire le sconfitte.
Il suo Perugia non era solo una squadra, era un’idea di bellezza pratica e verticale, dentro un campionato che si prendeva troppo sul serio. Mentre gli altri mettevano paletti e ruoli, lui cercava armonia e qualità. Per questo andò in Serie A. Credeva, di fondo, che il calcio dovesse restare un gioco, e che chi lo pratica dovesse conservare almeno un po’ di incoscienza. Sana follia. A Pian di Massiano, il giorno del suo arrivo, la squadra a pezzi, chiese un campo da basket. “Per far cosa?”, risposero in società. “Per allenarsi ogni settimana”, spiegò serio il Gale. Le sfide a basket funzionavano così: l’allenatore in mezzo al campo con le casacche, distribuiva la prima ad Allegri del colore della sua e poi le altre a casaccio. Stava sempre con Massimiliano, cecchino infallibile.
Forse anche per questo il Profeta è rimasto un uomo di culto: mai del tutto celebrato, mai del tutto dimenticato. Troppo indipendente per piacere a tutti, troppo vero per non lasciare traccia. Se ne è andato uno degli ultimi uomini liberi del calcio, resta la sua lezione: non eseguire, pensare. Non obbedire, scegliere. Galeone è stato davvero un profeta: non di vittorie, ma di espressione.
			
							
							
							
							
							
						
												

