Attualità
Ci sono viaggi che tutti sognano e viaggi che in pochi osano fare. Il Giappone, oggi, è nella wishlist turistica globale: Tokyo che non dorme mai; Kyoto che incanta; Osaka che frigge tempura e vite umane. E, poi, il grande Fuji che affascina già solo guardandolo dall’aereo mentre ci si prepara all’atterraggio al Narita. Ma Hiroshima? Troppo dolorosa. Troppo impegnativa. Troppo vera. E allora spesso la si evita, come si evita uno specchio pulito che riflette chi siamo stati davvero.
Eppure, se si ha la fortuna di sbarcare sull’isola di Honshu, una tappa a Hiroshima dovrebbe essere obbligatoria. Non è una città, è una coscienza urbana. Un promemoria di cemento e anime. Un luogo dove il passato non passa mai del tutto. E dove, da ottant'anni, il silenzio non è silenzio: è attesa.
Alle 8.15 del 6 agosto 1945 il mondo smise di essere quello che era. In quell’istante – preciso, matematico, chirurgico – un ordigno chiamato Little Boy ridefinì la parola orrore. Hiroshima si dissolse in un fungo di fuoco e polvere radioattiva. E tre giorni dopo, a Nagasaki, si replicò l'abominio.
In questi giorni c'è chi ha scritto che a Hiroshima è il silenzio a colpire di più. Non è vero. O meglio: non è solo il silenzio. È il modo in cui, ogni giorno, quel silenzio viene rotto. Alle 8.15 in punto, una campana rintocca nel Parco della Pace. E quel suono non consola: interroga. Non placa: provoca. Ti chiede: "Hai capito, adesso? Hai imparato qualcosa?"
Ottant'anni dopo, l'atomica è tornata di moda dai pulpiti dei potenti. Si parla di deterrenza come se fosse un'opzione di menù, si evocano arsenali come fossero tweet. E ogni volta che un leader mondiale pronuncia la parola nucleare, la Genbaku Dome -la cupola rimasta in piedi tra le macerie - trema. Non fuori. Dentro. Come tremano i cuori di chi ha ancora il coraggio di ricordare.
Perché Hiroshima non è solo una ferita: è un avvertimento inciso nel cemento armato. Il memoriale della pace; le statue; le mille gru di carta lasciate dai bambini; il museo dove ogni vetrina è una lezione di storia e umanità: tutto ti parla, se hai orecchie per ascoltare.
E tutto ti urla, se hai il coraggio di guardare.
La città oggi è viva. Viva davvero. Ospita tre dei festival più importanti del Giappone, fiorisce, crea, si reinventa. Ma non ha dimenticato. E non lo farà. Perché dimenticare sarebbe come spegnere di nuovo il Sole, come fece la bomba quella mattina di agosto.
Hiroshima non si celebra, si attraversa. Come si attraversa un dolore che non è solo giapponese: è universale. Ed è proprio questo il punto. Perché la memoria non basta più. Serve riflettere. Serve opporsi. Serve saper dire, una volta per tutte: "Mai più".
Ma per dirlo con forza bisogna prima sentirlo risuonare. Come il rintocco di quella campana. Che ogni giorno spezza il silenzio. Per ricordarci che il silenzio, da solo, non basta più.
*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy