Omicidio
L'abitazione in via Emilia nel quartiere di Prato Smeraldo
“Io mio padre non lo vedevo da un mesetto, facevamo vite separate, non mi sono accorta di niente”. A fornire l’incredibile versione ai carabinieri di Foligno è stata la figlia della vittima, Scilla Bertini, in stato di fermo per omicidio volontario aggravato. Per gli inquirenti infatti la donna avrebbe strangolato il padre a mani nude e poi convissuto col cadavere del padre per oltre due settimane, nell’appartamento di via Emilia in cui, è emerso, vivevano in condizioni di estremo degrado. Poi il 14 marzo scorso la donna aveva chiamato il medico di base raccontando di aver trovato morto il 75enne nella sua camera da letto. Ma in quella stanza il medico si era trovato davanti un corpo mummificato. Per questo motivo i sospetti si sono indirizzati verso quell’unica figlia convivente che, nella migliore delle ipotesi, non poteva non essersi resa conto della morte del padre. Tanto più che il cadavere era in camera da letto in un piccolo appartamento in cui sembravano vivere in simbiosi.
I carabinieri della compagnia di Foligno, assieme ai colleghi del comando provinciale di Perugia, avevano immediatamente avviato tutti i necessari accertamenti. Primo tra tutti, il controllo, certosino, per riscontrare eventuali effrazioni. Ma ogni rilievo aveva restituito evidenze negative. Non c’era alcuna traccia dell’ingresso in casa di terze persone. La donna, 43 anni vissuti sempre in casa con il padre Claudio, rimasto vedovo dopo che la moglie e madre della presunta parricida era deceduta tragicamente per un incidente domestico, era stata dunque ascoltata più volte dai militari come persona informata sui fatti. I carabinieri, dato anche che quell’uomo era affetto da diverse patologie, le avevano chiesto anche come funzionava in casa per i pasti. Ma Bertini aveva risposto che “ognuno cucinava per sé”, quindi era possibile che per molti giorni non si incontrassero.
La versione ovviamente non aveva nemmeno lontanamente persuaso i carabinieri che stavano procedendo con tutti i necessari accertamenti, coordinati dal procuratore capo di Spoleto, Claudio Cicchella, titolare del fascicolo insieme al sostituto Vincenzo Ferrigno. E, proprio nell’ambito di questi accertamenti, i militari avevano scoperto che, all’inizio del mese di marzo, la 43enne aveva speso circa 2 mila euro in vestiti utilizzando un bancomat di famiglia. Acquisti molto diversi da quelli che risultavano essere stati fatti in precedenza. Prima di quelle spese per vestiti e calzature infatti, quella carta veniva usata per comprare generi alimentari, medicinali e quant’altro di prima necessità. Non è chiaro - non essendo stato ancora del tutto individuato il periodo preciso della morte dell’anziano - se la 43enne abbia speso quei soldi prima dell’omicidio, e quindi queste spese possano essere state motivo di discussione tra lei e il padre, o se gli acquisti siano stati effettuati dopo il delitto, quando la donna disponeva di entrambi i conti correnti di famiglia.
Poi, quando i carabinieri hanno contattato anche la banca della vittima, il conto intestato solo al 75enne è stato bloccato.
La figlia aveva comunque accesso all’altro conto corrente, di cui era cointestataria insieme al padre. E proprio da lì avrebbe prelevato circa cinque mila euro nelle ultime settimane. Una cifra importante che in parte le è servita per pagare le due strutture ricettive presso le quali ha soggiornato nelle ultime settimane. Dal momento del ritrovamento del cadavere dell’anziano infatti, l’appartamento al primo piano di via Emilia, nel quartiere di Prato Smeraldo, era stato sequestrato e la 43enne aveva avuto bisogno di un posto in cui stare. Secondo quanto emerso, però, tra la prima e la seconda struttura si era resa irreperibile per un paio di giorni, cosa che, avrebbe fatto temere una fuga agli inquirenti. Poi era stata nuovamente localizzata in un altro b&b nei pressi della casa di famiglia. Il soggiorno sarebbe terminato domenica mattina, anche per questo motivo e per evitare un allontanamento, la donna è stata fermata e portata in carcere con l’accusa di omicidio volontario aggravato dal rapporto di parentela.
Nel frattempo infatti, nei giorni scorsi, era arrivata anche la relazione preliminare medico legale del dottor Sergio Scalise Pantuso, che aveva indicato in maniera incontrovertibile la causa della morte: quell’uomo era stato strangolato a mani nude. E chi altri se non la figlia convivente che aveva fornito una versione strampalata? Claudio, una vita vissuta in simbiosi con Scilla, che per anni lo avrebbe accudito, era affetto da diverse patologie che ne avevano fiaccato duramente il fisico. Esile e provato da quella che deve essere stata una lunga malattia, è stato rinvenuto a letto con addosso una sorta di tuta-pigiama. Il letto non sarebbe stato sfatto, segno che probabilmente, l’omicidio non è avvenuto mentre l’anziano dormiva. Nemmeno la posizione in cui è stato rinvenuto, deporrebbe in tal senso.
Ad ogni modo, la figlia, assistita d’ufficio dall’avvocato Marusca Margutti, nella mattina di martedì 1° aprile comparirà davanti al giudice per le indagini preliminare per l’udienza di convalida del fermo di indiziato di delitto. In questa sede quindi potrebbe decidere di raccontare la verità. Anche se, da un punto di vista investigativo, l’indagine sembra piuttosto blindata, la 43enne potrebbe fornire spiegazioni che nessun accertamento sarebbe in grado di fare. Nemmeno quello classico e, normalmente fondamentale, dell’analisi dei telefoni: padre e figlia infatti avevano cellulari addirittura senza traffico dati. Dai contorni della situazione emerge comunque una condizione di disagio estremo, di cui forse nessuno era a conoscenza, e che potrebbe essere il punto di partenza per eventuali valutazioni psichiatriche.
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