Il caso
In Corea del Nord, non serve un colpo di Stato per finire nei campi di lavoro. Basta inclinare una nave. E ora quattro funzionari rischiano molto più del posto.
Lo scorso giovedì, a Chongjin, un nuovo cacciatorpediniere da 5.000 tonnellate si è improvvisamente piegato su un fianco durante il varo ufficiale. Non era una prova qualunque: l’imbarcazione era il fiore all’occhiello della nuova flotta nordcoreana, il simbolo con cui Kim Jong-un intendeva mostrare “la forza e la dignità del Paese”. Invece, lo scafo danneggiato è diventato la metafora di una propaganda che fa acqua da tutte le parti.
Il leader nordcoreano non l’ha presa bene. Parole come “atto criminale” e “vergogna nazionale” sono state pronunciate pubblicamente – cosa rara per un Paese che normalmente insabbia ogni errore. La nave è attualmente in riparazione sotto il controllo di “un gruppo di esperti”, ma il vero cantiere ora è un altro: quello delle responsabilità politiche.
L’agenzia di stampa statale KCNA ha confermato l’arresto di Ri Hyong-son, vicedirettore del Dipartimento per l’industria delle munizioni del Partito dei Lavoratori, nonché membro della potentissima Commissione militare centrale. È lui, al momento, il bersaglio principale della repressione. Un capro espiatorio d’alto rango. Insieme a lui, già nel fine settimana erano stati arrestati tre responsabili del cantiere navale di Chongjin, accusati di aver compromesso l’onore tecnico del regime.
Secondo quanto riportato anche da Adnkronos, la punizione resta ufficialmente “non definita”. Ma il precedente parla chiaro: in Corea del Nord i funzionari ritenuti colpevoli di “danni all’immagine della Repubblica” finiscono ai lavori forzati. Nei casi peggiori, scompaiono. Letteralmente.
A colpire, però, non è solo la reazione sproporzionata. È il fatto che il regime abbia reso pubblica la notizia. Un comportamento atipico per Pyongyang, che solo in occasioni come i fallimenti dei lanci satellitari aveva ammesso debolezze. Perché farlo ora?
Secondo alcuni analisti citati dalla stessa KCNA, Kim avrebbe voluto “lanciare un segnale”: l’errore non sarà tollerato, ma il progetto militare va avanti. È il solito messaggio duale del regime: terrore interno, vetrina esterna.
In realtà, il gesto tradisce qualcos’altro. La necessità di mostrare pugno duro non più verso gli USA o la Corea del Sud, ma verso il proprio apparato. Perché, a forza di chiedere miracoli ingegneristici e velocità propagandistiche, si finisce per generare solo paura e approssimazione. E una nave che affonda davanti al Capo, in Corea del Nord, non è solo un fallimento: è un peccato di lesa maestà.
La nave era destinata ad affiancare la Choe Hyon, varata in pompa magna pochi mesi fa, come dimostrazione del rinnovamento della marina militare nordcoreana. Ma questo episodio dimostra quanto labile sia il confine tra potenza e improvvisazione in uno Stato che vive di cerimonie più che di strutture.
Intanto, quattro funzionari sono in cella. Il loro destino sarà forse deciso più in base all’umore del Leader che alla gravità tecnica del guasto. Ma una cosa è chiara: in un sistema che non ammette l’errore, anche un bullone allentato può costare la vita.
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