Il giallo
Il tempo non cancella. E nemmeno la verità riesce a farsi strada. A 34 anni dall’assassinio di Simonetta Cesaroni, il delitto di Via Poma torna sotto i riflettori. Ma non per un colpo di scena giudiziario. Stavolta a riaprire la ferita è la voce della sorella, Paola Cesaroni, che ha scelto il programma Storie di sera, condotto da Eleonora Daniele su Rai 1, per raccontare la sua versione e lanciare un monito: “Chi sa è ancora vivo.”
La puntata, trasmessa lunedì 5 maggio alle 23:40, ha ridato corpo e parole a un caso che è entrato nel lessico criminale italiano come sinonimo di mistero e ingiustizia.
Paola Cesaroni non usa mezzi termini. Ai microfoni di Storie di sera ha rivelato un retroscena che pochi conoscevano: “Sono stata sottoposta a interrogatori che somigliavano più a un processo contro di me che a una ricerca della verità. Per anni mi hanno trattato come una sospetta.”
Un’accusa implicita al clima investigativo dei primi anni ’90, quando la mancanza di prove chiare e piste sicure portò a un cortocircuito tra investigatori e familiari della vittima.
Simonetta fu trovata morta il 7 agosto 1990 nell’ufficio dell’AIAG di Via Poma 2, Roma. Colpita con 29 fendenti. Nessun testimone. Nessuna arma ritrovata. Un labirinto di sospetti e depistaggi.
Da quel giorno, il caso è passato attraverso tre principali indagati, due processi, un proscioglimento e una sentenza definitiva che non ha condannato nessuno.
Le piste si sono susseguite: il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore (poi morto suicida nel 2010); l’ex fidanzato di Simonetta; e, anni dopo, anche il figlio dello stesso portiere, poi archiviato. Ogni indagine ha finito per cadere sotto il peso di prove insufficienti o incongruenze.
Come ha sottolineato La Repubblica in una recente inchiesta anniversario, il delitto di Via Poma rappresenta uno dei più clamorosi fallimenti della giustizia italiana moderna: “Un cold case che nessuna tecnologia è riuscita ancora a sciogliere.”
Durante l’intervista su Rai 1, Paola Cesaroni ha lanciato un messaggio che suona come accusa e speranza insieme:
“Sono certa che ci siano persone vive che sanno cosa accadde quella sera. Persone che hanno scelto di tacere. Spero che, prima o poi, parlino.”
Un’affermazione pesante che riaccende i riflettori non solo sui possibili testimoni mancati, ma anche su chi - per paura, omertà o calcolo - ha evitato di raccontare tutto.
Il delitto di Simonetta Cesaroni non è solo una tragedia familiare. È diventato il simbolo di quanto fragile possa essere la giustizia davanti al crimine senza tracce.
Un caso che si rinnova in ogni anniversario, che viene raccontato da documentari, libri e programmi TV, ma che non trova mai la parola “fine”.
Il giornalista Massimo Lugli, in un’intervista a Il Messaggero, ha definito Via Poma “l’eterna incompiuta del giallo italiano”. E proprio questo spiega perché, a ogni nuova testimonianza o dichiarazione, il pubblico torna a interessarsi. Perché il bisogno di verità non si prescrive.
Mentre la sorella Paola continua a chiedere giustizia e verità, l’Italia resta spettatrice di un enigma che non si risolve.
Chi sa, tace. E chi tace, continua a proteggere un colpevole senza nome.
Finché quella porta di Via Poma resterà aperta nella memoria collettiva, il caso non potrà mai essere considerato chiuso. Anche se la giustizia, nei faldoni, lo ha già archiviato.
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