IL GIALLO
La seconda puntata di Linea di confine è dedicata al delitto di Via Poma, dove nell'estate del 1990 Simona Cesaroni ha perso la vita. Si tratta di uno dei più famosi misteri della cronaca nera italiana, costellato da sospetti, errori investigativi e processuali che dopo 35 anni non hanno ancora portato a una risposta.
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Simonetta Cesaroni nasce a Roma il 5 novembre 1969 e cresce nel quartiere Tuscolano, nella zona sud-est della città, insieme ai genitori e alla sorella maggiore Paola. Viene descritta da tutti come la ragazza della porta accanto, una persona semplice e sempre disponibile con tutti. Nel 1989 inizia a frequentare Raniero Busco, un operaio venticinquenne dell'Alitalia. Dopo il diploma, Simonetta trova lavoro come segretaria presso la società contabile Reli S.a.s, che ha tra i clienti l'Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, presso la quale la ragazza lavora occasionalmente negli uffici situati in Via Poma 2.
Il 7 agosto 1990 Simonetta stava lavorando presso gli uffici dell'AIAG in Via Poma da sola, in previsione delle ferie estive. Era stata accompagnata alla metropolitana la mattina dalla sorella maggiore, che la sera, dopo essere tornata a casa, viene fermata dalla madre, preoccupata per il mancato rientro di Simonetta, e le chiede di andare a cercarla.
Paola, insieme al fidanzato, ripercorre le strade che separano la loro abitazione dal luogo di lavoro della sorella, senza tuttavia incontrarla. Decide quindi di telefonare al capo di Simonetta, Salvatore Volponi, per capire se fosse successo qualcosa sul posto di lavoro, ma il cellulare dell'uomo risulta occupato. Preoccupata dalla situazione, si reca alla sua abitazione intorno alle 21:00 e, al citofono, Volponi le spiega di aver visto Simonetta solo la mattina per discutere delle sue ferie e di averla sentita intorno alle 18:00 al telefono. La ragazza gli aveva riferito che era accaduto qualcosa sul lavoro e che lo avrebbe aggiornato, ma la telefonata successiva non era mai arrivata.
Venuta a conoscenza di questo dettaglio, Paola si preoccupa ulteriormente e ricorda un fatto inquietante: nei mesi precedenti Simonetta aveva iniziato a ricevere chiamate anonime sul posto di lavoro da parte di un uomo che le faceva avances evidenti, senza che fosse mai riuscita a scoprire chi fosse. Dopo aver raccontato a Volponi questa situazione, l'uomo la invita a entrare in casa e, visibilmente agitato, inizia a fare delle chiamate verso interlocutori sconosciuti, senza ottenere risposta.
Verso le 21.30 Paola torna a casa, ma la madre, visibilmente preoccupata, le dice che Simonetta non è ancora tornata a casa. A questo punto, la donna decide di tornare da Volponi per farsi accompagnare presso gli uffici dove la sorella stava lavorando. Il capo le risponde di non sapere dove si trovassero gli uffici dell'AIAG, e, insieme al figlio e a Paola decide di recarsi negli uffici della Rari Sas per reperire maggiori informazioni sul luogo dove si trovava, presumibilmente, Simonetta. Paola ha descritto Volponi come visibilmente agitato, sia nel percorso tra la sua abitazione e gli uffici della società, sia dopo aver trovato l'indirizzo del luogo.
Arrivano in Via Poma intorno alle 23.00, e chiedono aiuto per accedere alla struttura al portinaio del palazzo Pietrino Vanacore che abita lì insieme alla moglie Giuseppa De Luca e il figliastro Mario Vanacore. Arrivati, Volpone suona a casa del portinaio e gli risponde la moglie che riconosce il capo di Simonetta e chiama il marito per ottenere le chiavi, ma l'uomo non risponde. Paola, comprensibilmente agitata, minaccia di sfondare la porta e viene fermata da Giuseppa che tira fuori le chiavi che, in realtà, aveva.
La porta dell'ufficio di Simonetta è chiusa a quattro mandate e all'interno è buio. Volponi entra per primo, si dirige verso la prima stanza e lì trova il corpo senza vita di Simonetta, completamente piena di sangue. Esce dalla stanza urlando una cosa ben precisa, "oddio, bastardo".
Dopo la tragica scoperta vengono subito chiamate le forze dell'ordine ma, all'arrivo della polizia, la porta del luogo del delitto viene trovata di nuovo chiusa. La moglie del portinaio, infatti, stava cercando di nascondere dietro la schiena le chiavi dell'ufficio ma viene immediatamente fermata. Una volta riusciti a entrare, il sopralluogo viene effettuato dal vicequestore Sergio Costa. Il corpo di Simonetta si trova disteso con le gambe divaricate e senza indumento intimo, con indosso solamente il reggiseno spostato verso il basso. Tuttavia la ragazza non sembrerebbe essere stata violentata. Presenta, inoltre, delle ferite al volto provocate probabilmente da pugni, dei lividi sui fianchi e 29 ferite da arma da taglio. Il delitto sembra essere di natura passionale, e vicino al capezzolo sinistro c'è il segno di un morso.
L'omicidio sembrerebbe essersi consumato tra le 18.30 e le 19.00 e, data l'assenza di segni di effrazione sulla porta dell'ufficio, probabilmente l'assassino era qualcuno che conosceva Simonetta e che sapeva, inoltre, dove lavorasse. Inoltre molti oggetti appartenenti a Simonetta sono stati portati via da chi ha ucciso la donna, che aveva anche ripulito l'ufficio dopo il delitto. Le uniche tracce lasciate sono delle macchie di sangue di tipo A, diverso, dunque, da quello di Simonetta di gruppo 0.
Le indagini iniziano la notte stessa, con testimonianze dei colleghi di Simonetta che giurano di non aver mai conosciuto la donna, nonostante il loro orario di lavoro è stato spesso sovrapposto a quello della vittima. Persino i portinai dichiarano di averla mai vista. Nel proseguire degli accertamenti, emergono alcuni errori investigativi, ad esempio dalla scena del crimine sono scomparsi alcuni oggetti, mai più ritrovati, su cui c'erano diverse tracce di sangue. Un'altra delle cose scomparse, ma poi ricomparse, è la presunta arma utilizzata dall'assassino: un tagliacarte, appartenente alla collega che dichiara di non aver più visto l'oggetto, nonostante fosse presente nelle foto della scena del delitto.
Pietrino Vanacore è il primo sospettato. L'uomo ha attirato i sospetti su di sè già nella notte del ritrovamento del cadavere, quando non si è presentato all'appartamento fino all'arrivo della polizia, con l'alibi di aver fatto compagnia all'architetto 80enne Cesare Valle. Questa assenza porta l'uomo a essere accusato prima di omicidio, poi di essere complice dell'assassino. L'ipotesi è che Pietrino si sarebbe invaghito di Simonetta, per poi ucciderla in seguito a un suo rifiuto. Inoltre, sui pantaloni che indossava quella sera, sono state trovate delle macchie di sangue, appartenenti, tuttavia, allo stesso Pietrino.
A suo carico anche il buco di mezz'ora nell'alibi della sera del delitto e un'agenda, di sua proprietà, rinvenuta sul luogo del delitto. L'uomo viene arrestato 3 giorni dopo il ritrovamento del corpo di Simonetta e trascorre 26 giorni in carcere. Viene rilasciato grazie anche all'assenza di tracce di DNA sulla scena dell'omicidio. Il 26 aprile 1991 viene ufficialmente scagionato.
Negli anni successivi sarà indagato con l'accusa di aver ripulito la scena del delitto, e dunque essere complice dell'assassino. Questa ipotesi è legata al secondo sospettato Federico Valle, ovvero il nipote 21enne dell'architetto al quale avrebbe fatto compagnia quella sera lo stesso custode. Il giovane, a causa del divorzio dei genitori, soffriva di anoressia e aveva una salute mentale molto precaria. Andava a trovare il nonno spesso e, in quelle occasioni, si era convinto di una relazione in corso tra il padre e Simonetta, rapporto, tuttavia, mai esistito. Questa gelosia, secondo gli inquirenti, sarebbe stata il movente dell'omicidio.
Valle entra nell'orbita delle investigazioni dopo una soffiata di un uomo austriaco, Roland Voller, che dice di essere amico telefonico della madre di Federico, Giuliana. Secondo Voller, la donna gli avrebbe rivelato che il 7 agosto 1990 il figlio sarebbe ritornato a casa sporco di sangue e molto agitato, con una piccola ferita alla mano. Giuliana nega di aver confessato e detto queste cose, e la stessa figura di Voller non viene presa totalmente sul serio. Inoltre, il sangue sulla porta non è nemmeno il suo, e questo lo scagiona.
La terza e ultima pista è quella verso Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. Viene fuori, infatti, che tra i due c'era un rapporto piuttosto problematico e tormentato, testimoniato da alcune lettere scritte da Simonetta. Questa relazione apparentemente problematica diventa, secondo gli inquirenti, il movente dell'omicidio e porta Raniero a essere iscritto nel registro degli indagati 17 anni dopo l'omicidio. I RIS di Parma, infatti, rilevano sul corpo della vittima un DNA corrispondente a quello di Busco. Ad aggravare la sua posizione sono anche gli alibi forniti nel corso degli anni, cambiati e smentiti più volte.
La prova regina verso Busco è la compatibilità tra la sua conformazione dentaria e il morso ritrovato sul capezzolo sinistro della vittima, riscontrata però solamente tramite un confronto visivo delle immagini scattate all'epoca. Nel 2011 arriva la sentenza: Raniero Busco è condannato a 24 anni di reclusione. Ma dopo la richiesta d'appello, un anno dopo, Busco viene assolto e dichiarato non colpevole. L'elemento cruciale di questa sentenza è la conferma che il morso non sarebbe riconducibile a lui.
Durante il processo nei confronti di Busco viene fuori un altro colpo di scena. Pietrino Vannacone, il custode, viene ritrovato senza vita in una località di mare in provincia di Taranto. Secondo le indagini Pietrino si è tolto la vita, lasciando un messaggio d'addio che recitava "20 anni di sospetti ti portano al suicidio".
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