L'indagine
Un italiano su due non paga l'Irpef
Metà degli italiani non paga l’Irpef. In Umbria il risultato è migliore rispetto alla media nazionale, ma la situazione resta grave. Nel Cuore verde, infatti, i contribuenti sono 668.603 e di questi 151.344 (1 su 4) non riescono a pagare nulla perché al di sotto del limite. E’ la fotografia degli 856.407 umbri scattata attraverso la ripartizione regionale dell’Irpef relativa a quanti hanno dichiarato redditi per il 2023. Se nel cuore d’Italia i Paperoni sono 598 con una fascia di reddito superiore ai 300 mila euro, sono 74.693 quelli che non arrivano a mille euro annui, che salgono a 184.452 se si considera il tetto dei 10 mila euro. E’ un bilancio severo, persino inquietante. Il tema è quello scottante della spesa pubblica e delle entrate, del fisco e della sostenibilità delle nostre presenti, ma soprattutto future pensioni. Quelle a cui giustamente si anela, ma che anno dopo anno non solo appaiono più lontane, ma anche più leggere e persino a rischio.
A dare una lettura che non concede sconti sulla situazione attuale - perché è quella che occorre valutare per capire le prospettive - è la dodicesima indagine sulle entrate fiscali che Itinerari Previdenziali, attraverso l’Osservatorio sulla Spesa Pubblica e sulle Entrate 2025, ha diffuso dopo un’attenta disamina degli effetti delle Finanziarie per il 2023, 2024 e 2025 su dati Mef e Agenzia delle Entrate, con una chiosa che lascia l’amaro in bocca: siamo un Paese di poveri.
Umbria, cresce
il gettito Irpef
Ma andiamo per ordine, cominciando subito con il capire cosa accade in Umbria secondo i dati incrociati da Itinerari Previdenziali, realtà indipendente che opera da oltre 15 anni in attività di ricerca, formazione e informazione nell’ambito dei sistemi di protezione sociale – pubblici e privati – e del loro finanziamento, delle politiche fiscali e di economia e finanza, con l’obiettivo di contribuire a sviluppare la cultura previdenziale, economica e finanziaria del Paese. Nel Centro Italia, la nostra regione spicca con un +11,54% nella distribuzione geografica del versamento Irpef ordinaria (al netto del Trattamento Integrativo dei Redditi e delle addizionali regionali e comunali per singola Regione e Comune) relativo ai redditi 2023. In soldoni i contribuenti umbri che versano l’imposta sono 517.259 (su 668.603 totali e 856.407 abitanti) per una cifra complessiva di 2 miliardi e 863 mila euro, che in Italia equivale al 1,38 per cento dei versamenti complessivi.
Cosa accade
altrove?
Considerando le singole regioni, la Lombardia, con poco meno di 10 milioni di abitanti, versa 46,8 miliardi, un importo maggiore rispetto ai 44,6 miliardi versati dell’intero Sud che ha il doppio degli abitanti (19,9 milioni) ma anche dei 45,1 miliardi (41,3 del 2022) del Centro che conta 11,7 milioni di abitanti e ha l’accentramento del Lazio. Esaminando le singole regioni, al Nord spiccano per crescita la Valle d’Aosta con il +12,87%, la Provincia autonoma di Bolzano +10,52%, la Provincia autonoma di Trento +11,77% e il Friuli-Venezia Giulia +8,83%. Al Centro, accanto all’Umbria si distinguono le Marche con il +11,03% , mentre al Sud, la Basilicata (+14,02%) e la Calabria (+13,37%).
Perché è importante
leggere questi numeri?
Perché sono un vero e proprio termometro della sostenibilità finanziaria del nostro welfare anche sotto il profilo territoriale, considerando che la spesa sanitaria, quella assistenziale e parte delle pensioni assistenziali, (particolarmente alta al Sud) sono finanziate dalla fiscalità generale e presentano profili di entrate e di spesa molto differenti da regione a regione con importi e tipologia di prestazioni pro capite spesso diversi; è proprio il rapporto tra queste uscite e le entrate fiscali, insieme a quelle contributive, verifica la sostenibilità e il livello di finanziamento del welfare regionale.
“Siamo un Paese
di poveri”
Ed ecco perché, allora, Itinerari Previdenziali arriva a dire che “siamo un Paese di poveri”: “Solo 33,540 milioni di cittadini su 58,997 milioni di abitanti presentano per il 2023 una dichiarazione dei redditi positiva – si legge nel Rapporto – questo significa che il 43,15% degli italiani non ha redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno; si tratta di una percentuale rilevante anche se in diminuzione rispetto sia al 2022 (45,16%) sia al 2021 quando era il 47% e, pur considerando il calo della popolazione, è atipica per un Paese del G7”. Coloro che che denunciano un reddito nullo o negativo nel 2023 sono cresciuti di 177.932 unità salendo a 1.184.272, una crescita che tuttavia appare poco comprensibile se si considera il buon andamento di Pil e occupazione.
Ancora: i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 a 15 mila euro) sono 16.169.150, di cui circa 9 milioni di pensionati totalmente o parzialmente assistiti dallo Stato e pagano solo l’1,19% di tutta l’Irpef (1,29% nel 2022), pari cioè a 2,475 miliardi. A questi contribuenti corrispondono 22,409 milioni di abitanti (1,409 milioni in meno rispetto all’anno precedente e 1,412 milioni rispetto al 2021) che, al netto delle detrazioni, pagano in media circa 110 euro l’anno (erano 102 nel 2022) e, di conseguenza, relativamente ai lavoratori ancora attivi, anche pochissimi contributi sociali, anche a causa degli “sconsiderati sgravi contributivi, con gravi ripercussioni sul finanziamento del sistema pensionistico e, quindi, sulla futura coesione sociale”. “Con quali soldi si pagheranno le pensioni a questa enorme platea?” si chiede il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.
I numeri
sotto osservazione
Dicevamo che i numeri complessivamente presi in considerazione, quantificano innanzitutto la “svalutazione” prodotta dalle leggi di bilancio per il 2023, il 2024 e 2025, per passare dunque in rassegna la lunga serie di provvedimenti riguardanti, nell’ultimo trentennio, la perequazione automatica. E’ qui che arriva il “severo bilancio”, proprio alla luce delle stime sulla perdita di valore in termini reali subìta soprattutto da quanti hanno maggiormente sostenuto il sistema con contributi e imposte, vale a dire i percettori di trattamenti di importo medio-elevato. Tanto più che, lungi dal premio merito e fedeltà fiscale, le risorse “risparmiate” attraverso la mancata rivalutazione sono andate per lo più ad appesantire una spesa assistenziale che già grava sul bilancio statale per oltre 160 miliardi l’anno, si sottolinea nel Rapporto. Una scelta ritenuta dagli estensori iniqua e, soprattutto in riferimento alla quota di pensione calcolata nei misti con il metodo contributivo, che prevederebbe la rivalutazione piena degli assegni, non priva di profili di incostituzionalità rispetto ai quali la Consulta è stata già più volte chiamata a esprimersi. A completare dunque l’Osservatorio, oltre a un focus sulla distribuzione del carico fiscale tra i pensionati, anche un’analisi critica della sentenza 19/2025 della Corte Costituzionale, cui si affianca una dettagliata comparazione internazionale, utile a rimarcare le lacune della normativa italiana nel confronto con i principali Paesi europei e di area Ocse.
Profonde asimmetrie
nel sistema fiscale
I numeri mostrano come il problema dell’Italia risieda nelle profonde asimmetrie che lo caratterizzano. Una parte consistente dei cittadini versa contributi molto ridotti o addirittura nulli, restando quindi sostenuta dal sistema collettivo, mentre una ristretta fascia di contribuenti con redditi elevati si fa carico della maggioranza delle entrate necessarie a finanziare la spesa pubblica. Questo squilibrio, se non affrontato con adeguate riforme, rischia di mettere in crisi la sostenibilità del welfare e di erodere progressivamente le risorse disponibili per gli investimenti strategici indispensabili alla crescita e alla modernizzazione del Paese. Oggi in Italia il prelievo fiscale raggiunge il 43% per ogni euro di reddito che supera i 50mila euro annui, a cui vanno sommate le addizionali locali. Un livello di imposizione che, se confrontato con altri grandi Paesi europei, appare particolarmente gravoso nella fascia medio-alta. In Germania, infatti, un’aliquota del 42% scatta soltanto oltre i 67 mila euro e si applica fino a 278 mila, soglia oltre la quale entra in gioco l’aliquota superiore. In Francia, invece, un’imposizione analoga non si incontra prima degli 82 mila euro, mentre la tassazione marginale più elevata interviene soltanto oltre i 177 mila euro di reddito.
Secondo l’analisi dei dati del Dipartimento delle Finanze elaborati dall’Osservatorio, la riduzione di due punti dell’aliquota Irpef sui redditi compresi tra 28mila e 50mila euro, accompagnata da un meccanismo di sterilizzazione per i redditi più alti, avrebbe un effetto selettivo: resterebbero esclusi circa 3,02 milioni di contribuenti, pari al 7,1% del totale, i quali, con i loro 84,1 miliardi di versamenti, garantiscono da soli il 44,3% del gettito Irpef nazionale.
C’è un “motore
del nero”
Sono davvero tanti i numeri presi in considerazione dall’Osservatorio (a firmare il rapporto sono Alberto Brambilla, Paolo Novati e Nicola Quirino, con il sostegno della Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità) in un rapporto che conta un centinaio di pagine ricche di tabelle e percentuali, a dimostrazione della certosinità del lavoro svolto. Ed è ovvio, dunque, sono alcuni punti fermi evidenziati dagli estensori che devono far riflettere il mondo della politica, perché la conclusione è questa: “Sebbene il decreto attuativo della legge delega abbia ridotto il numero di aliquote legali da quattro a tre, il numero di aliquote marginali effettive è aumentato da quattro a sette (tralasciando, per semplicità, i picchi isolati intorno agli 8.500 e ai 15.000 euro). L’andamento complessivo risulta quindi più complesso e disomogeneo ma molto penalizzante per i redditi medio alti; una situazione che peggiora se si considera che per una parte dei cittadini è operativa la flat tax, il vero motore del nero, che rende disuguali di fronte alla legge un dipendente e un autonomo. Inoltre, questa dinamica appare in contrasto con gli obiettivi originari della riforma, che puntavano alla semplificazione del sistema fiscale risultato evidentemente non raggiunto ma ulteriormente complicato”.
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