IL PERSONAGGIO
Il 15 ottobre 1993, esattamente 32 anni fa, il Premio Nobel per la Pace fu assegnato a Nelson Mandela e Frederik de Klerk per aver guidato, in modi diversi, la fine dell’apartheid e l’avvio di un Sudafrica democratico. Trentadue anni dopo, lo stesso riconoscimento torna a far discutere: tra i nomi circolati per l’edizione 2025 c’era anche quello di Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti, sostenuto nelle candidature dalla deputata repubblicana Anna Paulina Luna e dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

L’apartheid e un Paese diviso per legge
Nelson Mandela (1918-2013) è ricordato come il più grande simbolo della libertà del Sudafrica e, allo stesso tempo, come un emblema universale di riconciliazione in un continente segnato dal razzismo e dalle violente conseguenze delle conquiste coloniali europee avvenute tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Qui nacque il termine “apartheid”, che in afrikaans significa letteralmente “separazione” o “stare a parte”, una delle lingue parlate dalla popolazione bianca del Sudafrica. Col tempo, una serie di leggi rese obbligatoria la divisione razziale. Nel 1950, governanti implacabili imposero che ogni persona venisse classificata per razza in un apposito registro nazionale: white (bianco), coloured (meticcio o discendente misto), indian/asian e bantu (persona nera africana). Più di tre milioni di neri furono estirpati dalle loro residenze, caricati con la forza sui camion e trasferiti nelle riserve, le cosiddette “patrie etniche”, create per giustificare la perdita dei diritti civili. Tutto venne separato: scuole, ospedali, trasporti e relazioni sociali. Nello stesso anno, l’Immorality Amendment Act proibì qualsiasi rapporto sessuale tra bianchi e non bianchi, anche se consensuale: trasgredire alla regola comportava arresto, reclusione e lavori forzati. A questo si aggiungevano i pass laws, i passaporti interni che limitavano la libertà di circolazione dei neri.
L’ascesa di Mandela
Questo sistema repressivo alimentò le ribellioni degli anni ’50, guidate da movimenti come l’African National Congress (Anc), fondato nel 1912 anche con l’appoggio di Gandhi, di cui il giovane avvocato Nelson Mandela faceva parte. In questa fase la resistenza era ancora pacifica, ma tutto cambiò quando la repressione si inasprì fino agli eventi del 1960: la messa al bando dell’ANC e il massacro di Sharpeville, in cui la polizia uccise 69 manifestanti neri che protestavano contro i pass laws. Fu il segnale che la resistenza non violenta non bastava più, e nacque l’ala armata dell’ANC, Umkhonto we Sizwe, “La Lancia della Nazione”. La situazione precipitò rapidamente per Mandela. Il 12 giugno 1964, durante il processo di Rivonia, fu condannato all’ergastolo e trasferito nel penitenziario di Robben Island. Qui, insieme ai suoi compagni di prigionia, trascorse gli anni a spaccare pietre nel cortile del blocco 3, nel settore di massima sicurezza. Gli fu consentito di leggere e spedire lettere solo due volte l’anno. La reclusione però non lo piegò: in carcere creò una sorta di università dove i detenuti potevano studiare storia e politica. In quegli anni imparò anche l’afrikaans per poter parlare la stessa lingua dei suoi carcerieri. Pur dietro le sbarre, la sua figura continuò a crescere. Il suo nome diventò un simbolo internazionale contro il razzismo, e lo slogan “Free Nelson Mandela” comparve nelle piazze di mezzo mondo. Nel 2013 gli U2 gli dedicarono “Ordinary Love”, e Bono Vox lo definì “l’unico prigioniero capace di liberare chi stava fuori”.
Negli anni ’90 l’opinione pubblica internazionale non poté più ignorare l’apartheid, e tenere Mandela in carcere diventò politicamente insostenibile. Così, dopo ventisette anni di prigionia, l’11 febbraio 1990 venne liberato. Alle quattro e sedici del pomeriggio, mano nella mano con sua moglie Winnie, si presentò a Città del Capo e salutò la folla con il pugno alzato, il saluto dell’ANC. Al suo popolo disse: “Metto nelle vostre mani gli ultimi anni della mia vita”. Nel 1994 diventò il primo presidente nero del Sudafrica. Non cercò vendetta, ma riconciliazione. Creò la Commissione per la Verità e la Riconciliazione perché il perdono non significasse silenzio, ma memoria. Amava il suo popolo, la sua terra e anche il rugby, che trasformò in un ponte politico. Quando indossò la maglia verde degli Springbok durante la finale dei Mondiali del 1995, un Paese ancora diviso capì che quella non era più solo la squadra dei bianchi.
*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy