Perugia
La sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi
“Nessun rappresentante delle Istituzioni può permettersi di non dichiararsi antifascista, se non a costo di rinnegare il sangue versato dai partigiani e le nostre radici democratiche”. Le parole scandite dalla sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi, al termine di un lungo e toccante intervento alla commemorazione dei patrioti fucilati dai nazifascisti in Borgo XX Giugno, sono state accolte da un applauso scrosciante da parte delle tantissime persone che hanno voluto presenziare alla cerimonia. E' stato solo uno dei tantissimi applausi che hanno accompagnato l'intervento di Vittoria Ferdinandi, che si è detta "emozionata per il suo primo 25 Aprile da sindaca".
"Non esiste una festa che più di questa custodisce e invera in sé origine, senso, direzione e valori della nostra Repubblica libera e democratica" ha detto, prima di annunciare che, a differenza di tutte le altre volte, avrebbe letto un discorso e non avrebbe parlato a braccio. "Per non dimenticare nulla: perché il 25 Aprile merita verità e rispetto e non sobrietà e falsità". Ferdinandi, inoltre, così come fatto poco prima Amedeo Zupi di Anpi, ha voluto citare la partigiana Mirella Alloisio, quest'anno non presente a Perugia perché invitata alle celebrazioni di Genova dal presidente Mattarella: "I suoi occhi e il suo sguardo - ha detto la sindaca - per noi giovani innamorati del 25 aprile sono sempre stati una vertigine". Appassionata e appassionante, la prima cittadina, ha detto, tra l'altro: "Veniamo da una Resistenza antifascista, siamo una Repubblica antifascista, poiché la Costituzione è intrisa di ribellione antifascista, ed è quindi ontologicamente antifascista".
Riferendosi alla figura di Piero Calamandrei, Ferdinandi ha citato il suo celebre frase secondo cui la Costituzione è "un giudizio sulla storia". Ha spiegato che la Costituzione rappresenta un impegno verso la giustizia e la dignità umana, invitando tutti a riflettere sul suo valore e sulla necessità di difenderla ogni giorno. La sindaca ha sottolineato l’importanza di ricordare che il 25 aprile è un evento attuale, non solo una celebrazione storica. "Il 25 aprile è oggi, non ottanta anni fa", ha dichiarato, evidenziando come oggi si manifestino venti di restringimento degli spazi di democrazia e di divisione tra gli esseri umani. Ha ammonito: "È oggi che si costruiscono recinti per dividere gli umani in categorie, E’ oggi che gli esseri umani vengono incatenati di nuovo e deportati negli aerei invece che nei treni, è oggi che si fanno i selfie di fronte alle persone chiuse nelle gabbie, è oggi che le libertà individuali vengono offese e umiliate da chi vuole dirci ciò che è normale e ciò che non lo è, È oggi, qui e ora, che si cerca di reprimere ogni forma di dissenso e ribellione". Al termine del discorso della prima cittadina, tutti - o quasi - i presenti, hanno cantato insieme Bella Ciao.
Di seguito il testo integrale dell'intervento della sindaca Vittoria Ferdinandi:
Parma 4.5.1944
“Cari compagni, ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro luminosa, grande e bella.
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.
Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.
La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio.
Sui nostri corpi si farà grande il faro della libertà.
Cara mamma e cari tutti, purtroppo il destino ha scelto me ed altri disgraziati per sfogare la rabbia fascista: non preoccupatevi tanto e rassegnatevi al più presto della mia perdita.
Io sono calmo”.
Io sono calmo: a scrivere è Giordano Cavestro; quando scrive, Giordano ha 19 anni e il giorno dopo verrà condannato a morte.
Poco lontano da lui, a Ravenna, c’è Umberto Ricci che scrive alla madre:
Vorrei pure che nel marmo della mia tomba fossero incluse queste parole: QUI SOLTANTO IL CORPO, NON L’ANIMA MA L’IDEA VIVE.
Penso al tremendo dolore che ti do. Sopportalo, pensa che tuo figlio era un titano che non ha mai pianto, che tutto ha sopportato. Sopporta anche tu con coraggio e, se puoi, ama la mia stessa idea perché in essa troverai me.
Io me ne muoio calmo e tranquillo.
Sono calmi Giordano e Umberto, sono certi che il loro sacrificio servirà da esempio, sono sicuri che l’idea vivrà.
Chissà cosa penserebbero oggi Giordano e Umberto. E cosa proviamo noi di fronte a tanto coraggio e a tanta determinazione?
Come possiamo noi oggi, a 80 anni, raccogliere quell’eredità da quel sacrificio? È una domanda che sorge implacabile quando ci confrontiamo con la vita e gli scritti di questi uomini e di queste donne, quando ci misuriamo con la loro idea di Resistenza.
Se c’è un modo, un unico modo in cui onorare quel sacrificio, è di rendere viva quella memoria, di farla diventare promessa e impegno solenne qui ed ora.
Il 25 aprile che festeggiamo oggi è una ricorrenza solenne, ed è giusto e sacrosanto che sia così. Nelle giornate solenni c’è però il rischio che si insinui una dose eccessiva di retorica. C’è il rischio che l’aspetto formale della questione prenda il sopravvento sulla sostanza di quello che si celebra e si festeggia oggi.
Così facendo si normalizzerebbe il 25 aprile, se ne sterilizzerebbe la portata seminale che ha avuto, lo si ridurrebbe a involucro svuotato di contenuto.
È successo, purtroppo. Succede.
Succede perché del 25 aprile si parla al passato, lo si considera una data storica. Così lo si rimpicciolisce e lo si allontana da noi, banalizzandolo fino a farlo diventare uno dei tanti eventi che si sono succeduti gli uni agli altri. No. Il 25 aprile non è un evento tra tanti. Il 25 aprile è stato il coronamento di un percorso e l’inizio di un cammino che dobbiamo rinnovare ogni giorno.
Il 25 aprile è stato il coronamento di un percorso di Resistenza. Di Resistenza non, come siamo abituati a dire oggi, di resilienza. C’è un’enormità di senso che separa i due concetti. Resistere significa spingere indietro con forza; essere resilienti, invece, vuol dire che dobbiamo adattarci. Che pare voglia dire che non dobbiamo disturbare. Che dobbiamo accettare di aver perso ali e utopia e ritagliarci un angolino dove rattrappirci senza far rumore.
E invece no, il 25 aprile è il coronamento di una resistenza a vent’anni di dittatura, di soprusi, di avversari politici mandati al confino, fatti morire in carcere, costretti all’esilio, torturati e assassinati; di massacri coloniali, di persecuzioni e di alleanze scellerate. La Resistenza è stata a tutto questo. Cioè a un agglomerato in cui è difficile isolare elementi, poiché un solo collante li ha tenuti insieme: l’assecondare gli istinti più bassi di sopraffazione, l’affermazione sistematica e violenta della legge del più forte. Quel collante ha avuto un nome e un cognome: regime fascista. Un regime la cui parabola dice molto della sua natura, poiché è nato, si è sviluppato ed è soffocato dopo un ventennio nella violenza. È questa la prima grande eredità che il 25 aprile ci consegna: un’idea generativa e trasformativa della Resistenza. Senza quella forza che ha resistito, non ci sarebbe oggi la nostra Repubblica.
La Resistenza ha avuto ottanta anni fa e conserva oggi un carattere costituente. Il 25 aprile, infatti, oltre a essere stato il coronamento del percorso che ha portato la Resistenza a farsi Liberazione dal nazifascismo, ha innescato l’inizio del cammino che ha fatto dell’Italia una Repubblica democratica. Tanto da poter essere indicato come autentica data di nascita della Repubblica stessa; il 2 giugno 1946 sarebbe una data inspiegabile, se non la si collegasse alla sua genitrice, il 25 aprile 1945, appunto, e alla Resistenza che l’ha prodotta.
Albert Camus ci ha insegnato che dietro il no a qualcosa c’è sempre il sì a qualcos’altro. Che la Resistenza, la rivolta, non sono rifiuto fine a sé stesso. Che nel momento stesso del rifiuto, cioè, c’è la ricerca di un livello più alto, c’è il sogno di una possibile trasformazione dello stato di cose esistente. Qui sta il valore costituente della Resistenza che ha portato a liberarci dal nazifascismo per dare vita alla Costituzione Italiana. Nel momento in cui ci si ribellava all’oscenità di un regime alleato e complice con chi stava compiendo un genocidio e si arrivava alla Liberazione, c’era già in nuce la ricerca di un mondo, di una società che fosse più degna, più libera, più democratica, più umana. È la Resistenza alle forze fasciste e ai loro valori, e nient’altro, che ha portato alla Costituzione da cui sgorga la nostra vita pubblica oggi, qui, ora.
La Costituzione basata sul lavoro per tutti e tutte; la Costituzione delle libertà personali inviolabili; la Costituzione che indica allo Stato di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana; la Costituzione della separazione dei poteri come garanzia di libertà. Questa Costituzione, frutto della Resistenza costituente, ci dice al tempo stesso ciò che siamo stati, ciò che siamo oggi, ci dice tutto quello che abbiamo conquistato e tutto quello che rischiamo di perdere. Veniamo da una Resistenza antifascista, siamo una Repubblica antifascista, poiché la Costituzione è intrisa di ribellione antifascista, ed è quindi ontologicamente antifascista. E allora nessuno, dico nessuno di tutti quelli che hanno l’onore di rappresentare le nostre istituzioni può permettersi di non dichiararsi antifascista, se non a costo di rinnegare le nostre radici, la nostra storia, il sangue versato da chi ha lottato per la libertà della nostra Repubblica.
Uno dei padri della Costituzione, Pietro Calamandrei, presentando la Costituzione ai ragazzi di una scuola, disse: “La Costituzione è un giudizio”.
Un giudizio sulla storia. La Costituzione dice che il mondo così come è ingiusto. E non lo accetta, resiste, non si adatta, non è resiliente, non decide di piegarsi alle forze, di adattarsi, ma resiste.
La Costituzione è una barricata.
L’articolo più bello, a detta di Calamandrei, l’articolo più importante, è il 3. E dobbiamo ricordarlo, perché in questo è contenuto tanto del senso della Liberazione:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Ecco, sarà un caso, ma quel “di fatto”, quel bellissimo “di fatto”, è merito di una donna, Teresa Mattei, partigiana, resistente, pedagogista, la più giovane eletta all’Assemblea Costituente.
La Repubblica, la Costituzione, il 25 aprile... gli “ostacoli di ordine economico e sociale” - la povertà, il dolore, la miseria morale, economica, umana – non li accetta.
La Repubblica, la Costituzione, il 25 aprile... giudicano che il mondo non va accettato, ma mutato. Va chiamato a essere ciò che il disordine che abbiamo intorno non permette: uno spazio che consenta di crescere, aprirsi alla dignità, alla vita. Costituzione e 25 aprile chiamano a una ribellione contro tutto ciò che non permette “il pieno sviluppo della persona umana”. Sono strumenti di lotta.
Calamandrei, davanti ai ragazzi della scuola, si lascia sfuggire un “è rivoluzionaria”. Sembra un po’ pentito mentre lo dice, ma sorride.
Perché la nostra Costituzione non è così sciocca da scrivere che tutti gli uomini nascono uguali, ma ci spinge a onorare quella promessa ai partigiani che sembrano chiederci di non accontentarci mai sul piano ideale, di non cedere a mediocri compromessi, di non accettare passivamente l’ingiustizia che ci circonda, di FARE DELLA GIUSTIZIA UNA DISCIPLINA, di agire oltre il nostro tempo e le nostre possibilità.
Questo ci ha insegnato chi ha coronato la Resistenza con la vittoria sul nazifascismo e questo dobbiamo ricordare oggi.
Il 25 aprile è oggi, non ottanta anni fa.
È oggi che spirano a livello planetario venti di restringimento degli spazi di democrazia. È oggi che si costruiscono recinti per dividere gli umani in categorie. È oggi che il nazionalismo ottuso e strumentale cancella l’idea di Patria per cui i partigiani hanno dato la vita. È oggi che gli esseri umani vengono incatenati di nuovo e deportati negli aerei invece che nei treni, è oggi che si fanno i selfie di fronte alle persone chiuse nelle gabbie, è oggi che le libertà individuali vengono offese e umiliate da chi vuole dirci ciò che è normale e ciò che non lo è. È oggi, qui e ora, che si cerca di reprimere ogni forma di dissenso e ribellione. È oggi che la nostra Costituzione, quella su cui io ho giurato come Sindaca, quella che il 25 aprile ha reso possibile, viene di fatto tradita ogni giorno.
In quella Costituzione è scritto che donne e uomini sono uguali.
150 donne all’anno in Italia vengono ammazzate, perché sono donne.
Nella Costituzione è scritto che ripudiamo la guerra, mentre si parla sempre e ancora solo di armi.
Nella Costituzione è scritto che non si dà distinzione di razza: se nasci in Italia, vai a scuola in Italia, parli solo italiano, ma i tuoi genitori non sono nati a Perugia, non sei italiano.
Nella Costituzione è scritto che la Repubblica protegge ambiente ed ecosistemi: i dati dicono che tra 20 anni il Mediterraneo sarà una palude.
Questa violenza, questa penetrazione della brutalità in ogni relazione, questa paura eletta a sistema, questa compressione atroce e dolorosa della speranza, questo pensare che non si possa essere meglio di così, che “gli ostacoli di ordine economico e sociale” sono un fatto, questo terrore atroce verso tutto ciò che è diverso, questa costante ricerca del nemico: ecco, tutto questo che vedere con quella dimensione eterna del fascismo di cui parla Umberto Eco. E che sentiamo, respiriamo e che non possiamo non riconoscere.
Sapete qual è la più grande vittoria del male? La sua vittoria più grande è nel non farsi distinguere dalle cose. È quando il male si fa gesto quotidiano, rumore di fondo. La banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt, quando ci ricorda che Auschwitz non è cominciato con i campi di concentramento, ma con un certo modo di sentire e di pensare.
E allora fatemi alzare la posta: cosa desiderate? Sul serio, cosa desiderate ora? Siamo oggi capaci di desiderare come Giordano e Umberto? Perché l’estensione del desiderio di cui siamo capaci dà la misura dell’apertura alare dell’anima che c’è stata data in sorte.
Se desideriamo e pensiamo, ancora, che il sociale sia più importante dell’Io, che la politica sia ciò che era il 25 aprile, cioè opporsi alla violenza, alle ingiustizie, alle disuguaglianze, allora la promessa a cui il 25 aprile ci chiama è forse salva. D’altronde, che cos’è la Liberazione se non il desiderio che vince sulla paura? Che riconosce le catene dell’odio, la sua miseria, e le spezza?
Siamo pieni di rabbia, di odio, di violenza. Convertirla in speranza e disegno politico è il nostro mandato.
Il 25 aprile non è più il passato. La liberazione è davanti a noi, se ne siamo all’altezza. Se siamo all’altezza di raccogliere quelle verità: non chiuderti nella logica della paura, non giudicare, non aggredire, non lasciarlo affogare in mare, non bombardare. Quelle verità che ci sono giunte, lasciatemelo ricordare, anche attraverso Papa Francesco.
Far giungere a noi quelle verità, raccogliere quell’eredità significa dire che il nostro compito è allargare gli spazi della democrazia e difendere i diritti umani. Significa individuare oggi nuovi spazi e nuove forme della partecipazione; significa riconoscere dissenso e ribellione come forme di ricerca. Significa, ancora, adoperarsi per la rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, di tutte le persone umane. Significa aborrire la guerra sempre e comunque, non decidere di volta in volta la postura a seconda del nemico che si ha davanti. Questo significa continuare a ribellarsi consapevolmente per costruire giorno dopo giorno città, paesi e un mondo alla portata degli esseri umani, di tutti gli esseri umani.
Nel diario di Rita, una maestra ebrea e partigiana, nata in Cecoslovacchia che combatteva in Italia, per l’Italia, nel suo diario scoperto dopo che le fu sparato un colpo alla nuca, Rita scriveva: «Combatto non perché odio, ma perché amo. Se morirò, lasciatemi sepolta in un campo di grano, dove il vento porti via il rumore delle armi».
Ecco, la paura, l’orrore, l’odio, le ingiustizie sociali, il rumore delle armi: non lasciamoli al vento, portiamoli via noi.
Facciamolo, se non per noi, per Rita, Giordano, Umberto, per la nostra bella Italia, per il suo sole caldo e per le sue mamme buone.
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