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Cosa capiscono gli stranieri dai gesti degli italiani. La risposta arriva da uno studio dell'Università per Stranieri di Perugia

Per noi italiani, i gesti sono un linguaggio universale. Ma è davvero così? Uno studio dell'Università per Stranieri di Perugia ha identificato le differenze tra italiani e romeni, evidenziando come i nostri gesti vengono spesso confusi o mal interpretati

Claudia Boccucci

21 Luglio 2025, 13:13

Cosa capiscono gli stranieri dai gesti degli italiani. La risposta arriva da uno studio dell'Università per Stranieri di Perugia

Per un italiano le parole non bastano mai nella comunicazione con il mondo esterno. Per agevolare le conversazioni - soprattutto con persone stranieri - i gesti diventano indispensabili. E succede così, che la conoscenza di una lingua straniera in alcuni casi diventa superflua, tanto noi italiani ci facciamo capire a prescindere. O almeno così sembrerebbe.

Per noi i gesti sono un linguaggio universale e comprensibile in ogni parte del mondo, tanto che risulta difficile credere che qualcuno possa mal interpretarli. Ma come ci vedono gli stranieri? La risposta l'ha data uno studio condotto dall'Università per Stranieri di Perugia che ha messo in luce le interpretazioni della gestualità italiana da parte di cittadini romeni. Stando a quanto emerge dalla ricerca, i romeni classificano come "eccessivi", "invasivi" o "confusionari" alcuni gesti partenopei utilizzati in mancanza di contesto.

Per dirne alcuni: la mano sul petto per dire "lo giuro", agli occhi dei romeni viene travisato in "buona fortuna”, “zitto” o “non dico”. Un altro esempio emblematico riguarda il gesto che gli italiani usano più spesso, raccogliendo le dita della mano e facendola oscillare come a trasmettere abilità e furbizia, ma che invece per gli interlocutori stranieri simboleggia “strada curva”, “è stato complicato” oppure “approssimativo”

A consolarci è il fatto che non siamo soli, anche il modo in cui gli italiani percepiscono i gesti delle persone romene è molto differente. Queste considerazioni rilevano che la lingua parlata non è l'unica a subire delle traduzioni: anche il linguaggio non verbale deve essere necessariamente contestualizzato e ricondotto alle abitudini comunicative della nazionalità di riferimento. 

 

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