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Nel 1932 undici operai, seduti su una trave d'acciaio in mezzo al vuoto di un Rockefeller Center che doveva ancora lievitare dal suolo, divennero l'emblema del lavoro che costruiva il nuovo mondo e di una Manhattan destinata a trasformarsi in un groviglio di grattacieli; oggi, sulla copertina di Time, al loro posto compaiono i volti di otto stramiliardari con un telefonino in mano e grandi quote di mercato da difendere.

Novantatré anni dopo la rivista americana riprende dunque quella stessa immagine iconica e la riempie di tutt'altro significato: al posto degli uomini in tuta, con in mano la scatola del pasto, i magnati dell'intelligenza artificiale con smartphone e notebook. Mark Zuckerberg (Meta), Lisa Su (Advanced Micro Devices), Elon Musk (Tesla e SpaceX), Jensen Huang (Nvidia), Sam Altman (OpenAI), Demis Hassabis (Google DeepMind), Dario Amodei (Anthropic) e Fei-Fei Li (AI4All). Gli “architetti dell'IA”, li chiama Time.
Suggestivo. Ma profondamente sbagliato. Perché è come voler premiare il gestore di un alimentari per l'invenzione e la produzione dei salumi più pregiati.
Gli architetti esaltati da Time non hanno progettato nulla di nuovo: hanno semplicemente messo in cantiere invenzioni altrui, rivestendole di algoritmi e brevetti, distribuendo azioni e dividendi. Il resto - la visione, la teoria, la costruzione concettuale - è arrivato da chi non fa notizia ma ha fatto davvero la storia.
È vero: il 2025 è stato l'anno in cui l'intelligenza artificiale ha smesso di essere promessa ed è diventata potere. Economico, industriale, culturale. “Qualunque fosse la domanda, IA era la risposta”, scrive Time. Ed è una sintesi efficace. Ma da quando in qua chi sfrutta una rivoluzione diventa automaticamente colui che l'ha creata?
L'intelligenza artificiale non nasce da un colpo di genio solitario, né da una fortunata startup improvvisamente valutata miliardi. Nasce da un lavoro collettivo, lento, spesso invisibile. Da laboratori universitari, da teorie matematiche, da errori, tentativi, fallimenti. Nasce da chi ha costruito le fondamenta senza sapere se l'edificio sarebbe mai arrivato al centesimo piano.
I protagonisti della copertina di Time, invece, arrivano quando il palazzo è già in piedi. Comprano l'attico, decidono l'arredamento, affittano gli spazi. E soprattutto monetizzano.
Non è un reato, sia chiaro. Ma è un'altra cosa.
Chiamarli architetti è una forzatura narrativa comoda, perfetta per il nostro tempo: quello che confonde l'innovazione con il possesso, la visione con la capitalizzazione di mercato.
Eppure qualcosa di rassicurante in questa scelta c'è. Ed è paradossale: il fatto che sia stata fatta da un essere umano. Perché un'IA, interrogata, non avrebbe mai scelto i volti finiti sulla copertina di Time come suoi creatori.
Se davvero fosse stata l'intelligenza artificiale a indicare i suoi padri, non avrebbe certamente pronunciato i nomi dei presidenti dei consigli di amministrazione delle Big Tech. Avrebbe fatto un passo indietro, molto indietro, fino a quando l'IA non valeva trilioni ma idee.
Avrebbe citato Alan Turing, che nel 1950 pose la domanda più scomoda di tutte: le macchine possono pensare? Avrebbe ricordato John McCarthy, che nel 1956 ebbe l'intuizione decisiva di dare un nome a quel campo di studio e convocare menti diverse a Dartmouth per costruirlo insieme. Avrebbe menzionato Marvin Minsky, Claude Shannon, Nathan Rochester e tantissimi altri, italiani inclusi. Uomini che non fondavano unicorni, ma discipline.
Avrebbe spiegato, insomma, con fredda precisione, che non esiste un inventore unico, che l'IA è il frutto di un processo lunghissimo, che i meriti sono distribuiti e che la gloria non coincide con il fatturato. Ma gli uomini, si sa, amano e ricordano di più ciò che luccica. E spesso dimenticano ciò che fonda.
Così oggi celebriamo i padroni delle ferriere come se fossero gli architetti delle cattedrali. Applaudiamo chi governa il potere computazionale e lasciamo nell'ombra chi ha insegnato alle macchine a pensare prima ancora che qualcuno decidesse di farle rendere.
È il trionfo del presente sul passato, del profitto sulla memoria.
E forse è questo il vero segno dei tempi: non che l'intelligenza artificiale abbia cambiato il mondo, ma che l'uomo continui a confondere chi costruisce con chi incassa.
Gli operai del 1932 almeno lo sapevano. Perché, facendosi ritrarre in quella foto, erano sì coscienti che il Rockefeller Center sarebbe diventato il tempio di un miliardario, ma allo stesso tempo erano consapevoli che nessun magnate - anzi, proprio nessun altro - si sarebbe mai potuto sedere su quella trave sospesa nel vuoto per realizzare materialmente la loro opera.
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