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Emilio Fede, un vero direttore anche con tutti i suoi difetti

Sergio Casagrande

04 Settembre 2025, 12:51

Emilio Fede, un vero direttore anche con tutti i suoi difetti

Con Emilio Fede ci incontrammo per la prima volta più di trent’anni fa. Lui, grande, già direttore del Tg4, era accompagnato dalla moglie Diana e rispondeva solo ai saluti di chi gli mostrava almeno una minima ammirazione. Io, piccolo giornalista di provincia, ero insieme ad altri colleghi e, come tutti, sempre a dargli del lei, come meritano i veri direttori. E lui lo era, un direttore vero.

Ci univa la passione per le auto: alle più grandi presentazioni di nuove vetture italiane, riservate alla stampa specializzata, non mancava mai.

Non era uomo da immediate confidenze, soprattutto con i colleghi più giovani. Ma la sua simpatia – sorprendente – la conquistai, qualche anno dopo, al Lingotto, durante una cena di lavoro degli ultimi Saloni dell’auto di Torino.

Il caso ci volle seduti vicini allo stesso lungo tavolo che vedeva al centro Gianni Agnelli e Cesare Romiti insieme ad altri alti dirigenti della Fiat.

Lo bersagliai di domande sul suo passato da inviato in Africa, da conduttore e direttore del Tg1 e soprattutto sulla prima diretta no-stop della tivù italiana, da lui organizzata e coordinata: la tragedia di Vermicino. E, quando saltò fuori che anche io avevo mosso i primi passi da giornalista a 14 anni, proprio come lui, qualcosa si sciolse.

Ci rivedemmo più volte, ancor prima che la polvere lo travolgesse. E sempre parlavamo, oltre che di auto, di giornali, di cronaca, di cronisti.

“Tra un giornalista qualunque e un vero cronista c’è una grande differenza, mi ripeteva ogni volta: come si può condurre un telegiornale senza mai diventare un giornalista, puoi diventare giornalista senza essere cronista, ma non potrai essere un vero giornalista senza esser stato cronista”. Non era solo un gioco di parole, era certezza nella voce di chi il giornalismo lo portava nel sangue e ne aveva fatto una professione, anzi una vera missione di vita, consumando suole e tacchi sui marciapiedi.

“Non sopporto i giornalisti che stanno seduti e quelli che escono dalle scuole pensando di saper fare il mestiere senza essere mai andati a vedere le notizie sul posto. Io l’ho fatto e ti assicuro che fa la differenza quando arriva il momento di volare. Perché puoi correre, sgomitare, calpestare gli altri ma non potrai mai volare davvero in alto se prima non sei decollato partendo da terra”.

Difetti ne aveva, certo. All’apice della carriera era diventato vanitoso e, soprattutto, fazioso. E con me, ancora attorno ai 30 anni, aveva gioco facile nel fare il maestro. Ma indubbiamente conosceva la professione in profondità. E gli va dato atto che la sua partigianeria l’ha sempre mantenuta palese, mai nascondendola dietro a un falso perbenismo con la speranza che non fosse giudicata.

Aveva anche il vizio del gioco, in particolare la passione per le carte. Non nascondeva neppure questo e, quando doveva sfidare la fortuna, era a suo modo scaramantico.

Una volta lo incontrai nell’atrio dell’Hotel de Paris, a Montecarlo: elegantissimo in abito scuro calzava, però, un paio di scarpe da barca blu con i lacci di cuoio bianchi. Mi salutò con un secco: “Non chiedermi perché le porto”.

Poco dopo, lo rividi nelle sale del casinò. Mi rincorreva perché da Cesare Castellotti aveva saputo che, in un’incredibile sequenza a catena, avevo prima vinto a una slot dell’atrio e, subito dopo, beccato un odd, un cavallo e perfino un plein alla roulette della sala grande.

Mi chiese se avessi un mio segreto per vincere. Gli risposi che era solo la fortuna del principiante (e infatti da quella volta non ho mai più vinto in un casinò) e che i numeri su cui puntavo erano semplicemente basati sulla mia data di nascita.

Mi guardò attentamente le scarpe e poi mi regalò una tessera oro del Casinò di Montecarlo delle quattro che teneva in quel momento nel suo portafogli, l’unica che ti permetteva di accedere ai privé dello chemin de fer dove si giocavano, però, cifre troppo pesanti per le mie tasche.

L’anno dopo, stesso hotel e di nuovo puntata al Casinò: questa volta lui con scarpe che mi apparvero molto simili alle mie dell’anno prima. Una volta azzardai una domanda spinosa alla quale rispose con uno sguardo sincero: “Io al Presidente devo tantissimo. E di questo gli sarò sempre riconoscente. Si è dimostrato un vero amico, di quelli con la A maiuscola”.

Avrei voluto riproporgli quella stessa domanda, qualche anno dopo, quando i guai giudiziari si fecero per lui sempre più pesanti, ma non se ne presentò più l’occasione e quel numero di telefono che mi aveva lasciato era diventato inesistente.

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