POLITICA
Donald Trump ha un chiodo fisso: il Nobel per la pace. E, per ottenerlo, è pronto a tutto. Anche a far firmare a Netanyahu una candidatura ufficiale, in mezzo a un conflitto che più che pacificato pare solo congelato. Già, perché il Medio Oriente brucia ancora; l'Iran non spara più ma ringhia; e intanto il tycoon sorride. Si crede il nuovo Kissinger, ma con più lacca e meno diplomazia.
Dietro le quinte, la sceneggiatura è da Oscar: Gaza da ricostruire; tregue provvisorie spacciate per miracoli e che, nell’incertezza, potrebbero pure divenirlo davvero; missioni da mediatore tra Pakistan e India, tra Russia e Ucraina. Ogni gesto è calcolato, ogni stretta di mano una scena da talk show. Ma la pace – quella vera – non si improvvisa con le telecamere accese.
Il Nobel, per ora, resta un sogno.
Perché? Perché mancano le certezze. Tutte tranne una: Trump, volente o nolente, un posto nella storia se l'è già preso. Con la forza di un uragano e la delicatezza di un caterpillar. E forse è proprio questo che lo rende irresistibile: è il presidente che divide, conquista, spiazza. Ma che, nel bene o nel male, non si può ignorare.
Poi, se davvero riuscirà nei suoi obiettivi, quel posto potrebbe non essere solo nella storia ma pure tra le fila dei veri grandi della storia. D'altronde Giulio Cesare insegna: la barca che affronta la tempesta porta Cesare. E con lui, la sua fortuna. E con la fortuna dalla propria parte anche l'impossibile può diventare realtà.
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