REFERENDUM
C’erano più italiani sulla superstrada Foligno–Civitanova, sull’Aurelia e sulle autostrade della Liguria e della riviera adriatica che nei seggi. File chilometriche di vacanzieri in fuga verso le spiagge, quasi fossimo tornati al boom degli anni Sessanta.
Intanto, tra cabine elettorali vuote e scrutatori in attesa di anime vive, si celebrava il de profundis per i cinque quesiti referendari.
Brutto, sì, vedere così poca partecipazione. Ma ancora più brutto è stato l’appello di certi politici a disertare le urne.
Questa volta hanno perso tutti: chi i quesiti li ha voluti; e chi li ha sabotati.
Vero – forse, perché secondo molti costituzionalisti è discutibile – che non esista un chiaro obbligo civile di voto nei referendum, come invece sancisce l’articolo 48 della Costituzione per le tornate elettive. Ma resta il dovere morale.
E poi, anche per chi voleva votare no, sarebbero stati meglio un quorum raggiunto e una sconfitta chiara.
Così, invece, resta una vittoria di Pirro, fragile e contestabile.
La maggioranza di governo – tranne qualche eccezione interna – ha puntato sulla diserzione, temendo il verdetto degli italiani. E ha confidato sul mancato raggiungimento del quorum, visto che ottenere il 50 per cento più uno dei votanti aveva la stessa probabilità di centrare una cinquina al Lotto. Ma una democrazia che, comunque, teme il voto è una democrazia zoppa.
Serve un rimedio. Magari un Election day unico, per evitare di buttare altri soldi pubblici. Ma, soprattutto, servirebbe che la politica tornasse a credere nella partecipazione.
Anche quando rischia di perdere la faccia.
*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy