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CRONACA

Sangue, complicità e il silenzio della normalità

Sergio Casagrande

10 Aprile 2025, 12:54

Sangue, complicità e il silenzio della normalità

Andrea Prospero e Ilaria Sula

L’orrore, quando indossa il volto della normalità, fa ancora più paura. Lungi da me indossare i panni del moralista, ma l’Umbria è di nuovo al centro di brutali fatti di cronaca che coinvolgono i giovani. E questa volta, rispetto al delitto Meredith che, dopo più di 17 anni dal fatto è ancora associato alla città di Perugia, c’è qualcosa di più: non ci sono solo dei giovani tra i protagonisti.
Una riflessione è inevitabile. La tragedia di Ilaria Sula, studentessa universitaria ternana uccisa a Roma, non è solo l’ennesimo femminicidio – che già basterebbe a scuotere coscienze e smuovere istituzioni – ma è anche un drammatico specchio di ciò che, nella nostra società, si è rotto da tempo. Mark Samson ha confessato l’omicidio. Ma la parte più inquietante non sta solo nel gesto, già mostruoso, quanto in ciò che è accaduto dopo: la madre dell’assassino che ripulisce il sangue insieme al figlio, coetanei da identificare, telefonini che si agganciano alle stesse celle.
Silenzi. Presenze sospette. Complicità. Inquietante, sì. Ma anche tremendamente familiare. Perché non è la prima volta che ci troviamo a raccontare storie dove l’ambiente più vicino alla vittima o al carnefice - la famiglia, gli amici, le frequentazioni - non è la rete di protezione che dovrebbe essere, ma la fossa dove tutto si affonda.
Lo avevamo scritto con Andrea Prospero, il ragazzo di 19 anni inghiottito, quando si trovava a Perugia, da un oceano che era in realtà un abisso. Anche in quel caso, Andrea non era solo: aveva un amico virtuale, uno che lo ascoltava per trascinarlo giù, e una vita apparentemente normale alle spalle. Eppure, è morto in diretta chat, davanti a un computer, con cinque telefoni e decine di sim card accanto. Oggi, nel caso di Ilaria, le analogie ci fanno tremare ancora di più. Perché qui non c’è solo l’indifferenza.
C’è la partecipazione. C’è una madre che, invece di denunciare, cancella le tracce di sangue e, messa alle strette dagli investigatori, lo confessa. C’è una famiglia che, più che un nido, sembra diventata un bunker. E ci sono amici – o presunti tali – che devono spiegare perché erano, in quel momento, proprio lì, in alcuni nei luoghi dove si aggirava l’assassino nelle ore in cui si sbarazzava del corpo di Ilaria chiudendolo in una valigia e gettandolo in un dirupo come fanno coloro che vogliono liberarsi della spazzatura più ingombrante. Dal caso di Andrea al delitto di Ilaria siamo passati rapidamente dai pericoli invisibili del web ai mostri cresciuti in casa.
E allora viene da chiedersi: dove si è rotto il filo? Quando abbiamo smesso di educare, di vigilare, di parlare davvero con i nostri figli? La famiglia, che dovrebbe essere il primo argine, è diventata spesso la prima falla. La complicità, anche se solo silenziosa, è una colpa. Lo è nei confronti di chi muore e di chi uccide. C’è un tempo per le indagini e le condanne e li lasciamo agli investigatori e magistrati. Ma c’è anche un tempo per le riflessioni. E quello è ora.
Perché se un figlio torna a casa dopo aver ucciso, o uccide perfino in casa e trova una madre che lo aiuta a lavare via il sangue, allora vuol dire che non siamo più semplicemente davanti a un delitto, ma a una società che ha perso completamente l’orientamento morale.
E se davvero, come temono gli investigatori, ci fosse stato un tacito consenso o addirittura un aiuto da parte di chi avrebbe dovuto denunciare, allora non ci troviamo più solo davanti a un omicidio. Ma davanti a un fallimento collettivo. Come per Andrea, anche per Ilaria il rischio è che il dolore venga archiviato in fretta. Che si spengano i riflettori, che si cambi argomento. Ma non possiamo permettercelo. Perché se non ricominciamo dalle famiglie, se non insegniamo ai ragazzi che l’amicizia è un vincolo di lealtà e non di omertà, se non torniamo a dire che il bene e il male non sono opinioni ma confini netti, allora continueremo a contare i morti e a raccontare l’orrore. Con la stessa, tragica normalità di questi giorni.

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