DAZI
Donald Trump e Ursula von der Leyen
Corsi e ricorsi storici, direbbe Giambattista Vico. E mai come oggi il filosofo napoletano sembra parlare direttamente a noi, osservatori attoniti di una storia che si ripete sotto altre forme. Con le dovute proporzioni, visto che oggi siamo nel “pianeta globale”, è come essere tornati al Medioevo, quando nel mondo frammentato e allora conosciuto i dazi costituivano una notevole fonte di entrata per gli stati e i loro signorotti, che imponevano un pagamento semplicemente per autorizzare il transito di una merce su un ponticello. Ma le guerre commerciali nel corso dei secoli, alternate da accordi e periodi di pace e reciproci scambi, in verità, sono state tante. E anche fratricide.
Il discorso di Donald Trump sui nuovi dazi segna, quindi, un nuovo punto di svolta epocale: è una pietra miliare nella storia del pianeta, una di quelle scelte destinate a ridisegnare gli equilibri economici globali con effetti imprevedibili. Trump ha detto chiaro e tondo ciò che, almeno per ora, negli Stati Uniti nessuno sembra voler contraddire: il protezionismo è la via per riportare il benessere all’interno dei confini americani. Un ritorno al passato, quando l’economia era in mano ai “padroni delle ferriere” e la classe operaia contava qualcosa. E chissà, magari in questo frangente anche la classe operaia, prima o poi, tornerà davvero a esistere. Ma non facciamoci illusioni: il ritorno al passato è anche un ritorno al conservatorismo economico più rigido, un gioco in cui gli Stati Uniti possono permettersi di chiudere le frontiere e fare i forti.
L’Unione Europea, invece, sembra aver imboccato la solita strada: piangersi addosso e alzare barricate con contromisure che sanno più di guerra di trincea che di strategia lungimirante. Ma davvero pensiamo di poter rispondere con gli stessi strumenti di Trump? Non siamo gli Stati Uniti; non abbiamo il loro peso politico né la loro compattezza decisionale. E soprattutto, i dazi di ritorsione rischiano di logorarci più di quanto possano danneggiare loro.
La verità è che, anche questa volta, è evidente che l’Europa deve cambiare, il più rapidamente possibile, prospettiva. Non è difendendosi dagli Stati Uniti che potremo trarne vantaggio, ma occorre guardare oltre. È tempo di puntare su mercati che finora sono stati solo sfiorati, forse perché cullati dall’illusione che l’ombrello americano fosse eterno. L’India, l’Estremo Oriente, la Cina: lì c’è il presente e ci sarà il futuro del commercio globale. In Giappone siamo già forti con lusso e moda, ma possiamo fare di più. In Cina abbiamo margini enormi di espansione, e l’India è un mercato che grida opportunità. Senza contare Africa e America Latina, che spesso abbiamo trattato più da bacino di sfruttamento che da partner commerciali strategici.
Ma come fare? Perché il problema è proprio questo: la produzione industriale europea non è più quella di un tempo, e i Paesi ai quali vorremmo rivolgerci ci hanno ormai superato come potenze economiche e produttive. Siamo rimasti ancorati a un modello di sviluppo che oggi mostra tutte le sue fragilità. E qui si gioca la partita vera. L’Unione Europea deve essere coesa e compatta, non solo a livello politico ma anche economico e industriale. Spetta alle migliori teste pensanti - politici, imprenditori, artigiani, esperti della filiera produttiva - ragionare (magari in una sorta di Stati generali da convocare a Bruxelles) sulla migliore strada da intraprendere e studiare una strategia efficace. Che, al limite, può essere analoga a quella di Trump solo su un punto o, comunque, partire da esso per trovare poi la forza per vedere dove poter approdare andando oltre i confini dell’Unione: fare del mercato europeo il terreno più fertile della propria economia interna. Non per un protezionismo ottuso, ma perché non bisogna dimenticare che la Ue ha 450 milioni circa di potenziali consumatori ai quali rivolgersi.
Non sarà facile, se c’è una cosa chiara è che non possiamo permetterci esitazioni: il tempo delle attese è finito. Serve una visione comune, una volontà ferrea di guardare altrove e muoversi rapidamente evitando anche il rischio di ulteriori guerre, per giunta interne tra gli Stati dell’Unione con i quali Trump vorrebbe trattare singolarmente e unilateralmente. Trump ha lanciato il dado. Noi possiamo scegliere se stare a guardare o giocare una partita diversa.
La storia, come ci insegna Vico, non è mai statica. Tocca all’Europa decidere se subire i ricorsi storici o sfruttarli per riscrivere il futuro.
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