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GUERRA

La globalizzazione del caos

Sergio Casagrande

09 Dicembre 2024, 15:04

La globalizzazione del caos

Ci mancava anche la Siria... Se il 2024, l’anno che sta per concludersi, fosse un film, il suo titolo potrebbe essere Il caos globale. La trama? Una lunga serie di eventi concatenati che trasforma tutto il mondo in una polveriera.
Dalla guerra in Ucraina al conflitto tra Israele e Hamas, passando, ieri domenica 8 dicembre, per la caduta del regime di Assad in Siria e i continui tumulti in Africa, Asia e Sud America, il pianeta sembra avviato verso una spirale di instabilità senza precedenti nell’ultimo quarto di secolo.
Non c’è, infatti, area della Terra che oggi possa vantare una generale solidità politica, economica o sociale.
Papa Francesco, con il suo consueto pragmatismo, l’ha detto chiaro: siamo dentro una Terza Guerra Mondiale a pezzi. E i pezzi, purtroppo, stanno diventando sempre più grandi e difficili da ignorare.
Ogni continente ha il suo teatro di crisi: in Africa si va dal Tigrè in Etiopia, dove la guerra civile continua a mietere vittime, alla Somalia, dove si è riacceso lo spettro del conflitto interno. In America Latina, ci sono Paesi sull’orlo del collasso economico e sociale, mentre la Bolivia ha visto un colpo di stato fallito per un soffio. E, a proposito di rischi di colpi di Stato, in Asia, perfino la Corea del Sud ha traballato per una mezza giornata.
È come se la globalizzazione, che doveva unire i popoli in una grande famiglia, abbia deciso di diventare il veicolo perfetto per il contagio dell’instabilità. Una sorta di pandemia politica che non risparmia nessuno. Eppure, l’inquietudine che monta è di una semplicità disarmante: ogni guerra, ogni rivolta, ogni collasso economico non è altro che la punta di un iceberg fatto di disuguaglianze, interessi economici e giochi di potere.
Prendiamo l’Europa, ad esempio. Pensava di essere il faro di stabilità nel mondo e ora si ritrova con una guerra nel suo cortile. La guerra in Ucraina non è solo una questione locale: è il riflesso di una competizione globale che coinvolge Stati Uniti, Russia, Cina e perfino Paesi che erano finiti, da decenni, dietro le quinte, come la Turchia.
Nel frattempo, la stessa Europa vacilla sotto il peso della sua incapacità di agire come blocco coeso, preferendo la diplomazia dell’ambiguità.
E poi c’è l’Africa, il continente dimenticato quando si tratta di sviluppo, ma ricordato in ogni crisi. Sudan, Libia, Mali: una geografia di dolore che ci ricorda quanto l’incuria internazionale possa essere letale. Ma chi si interessa davvero di questi Paesi? Troppo lontani per esportare caos direttamente nel nostro quotidiano, troppo vicini per ignorare le conseguenze indirette, come migrazioni e terrorismo.
Le Americhe non stanno meglio. Il Venezuela è ormai sinonimo di tragedia economica. E Cuba, un tempo esempio di resilienza, è alla fame.
In Asia, le tensioni tra le Coree e tra Cina e Taiwan, o quelle nel Kashmir sono bombe a orologeria che, se esplodono, potrebbero riscrivere gli equilibri dell’intero pianeta. Poi ci sono i fermenti in Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Afganistan, Yemen e tra i curdi.
Il problema non è la globalizzazione, ma la mancanza di una governance globale che sappia gestirla.
Siamo tutti interconnessi, ma nessuno sembra essere al volante.
I leader mondiali attuali agiscono come se vivessero in compartimenti stagni, dimenticando che le crisi non si fermano alle frontiere.
Se c’è una lezione da imparare dal 2024, è che l’instabilità non è più “lì”, ma ovunque. E finché i potenti del mondo continueranno a giocare con il fuoco senza preoccuparsi delle fiamme, sarà difficile spegnere il rischio di ulteriori incendi.

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