LA STORIA
Giovanni Brusca
Giovanni Brusca, soprannominato u verru o lo scannacristiani per la sua ferocia, è una delle figure più controverse della criminalità organizzata italiana. Autore o mandante di oltre 150 omicidi, tra cui la strage di Capaci e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il suo percorso da killer spietato a collaboratore di giustizia ha diviso l’opinione pubblica. Dopo 25 anni di carcere e 4 di libertà vigilata, dal 5 giugno 2025 è tornato in libertà, lasciando dietro di sé un dibattito irrisolto tra giustizia, pentimento e memoria delle vittime.
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Nato a San Giuseppe Jato (Palermo) nel 1957, Brusca viene affiliato a Cosa Nostra a soli 19 anni, diventando uno dei più giovani uomini d’onore della storia. Figlio di Bernardo Brusca, capomafia del mandamento locale, entra nel clan dei Corleonesi guidato da Totò Riina, distinguendosi per crudeltà e efficienza operativa. Negli anni ’80 partecipa a omicidi chiave come quello del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (1977) e del giudice Rocco Chinnici (1983), di cui prepara l’autobomba insieme ad Antonino Madonia.
La sua carriera raggiunge l’apice nel 1992, quando diventa uno degli artefici della guerra allo Stato voluta da Riina. Oltre a pianificare attentati falliti contro Giovanni Falcone, come l’idea di far esplodere una vespa imbottita di tritolo o un bazooka, Brusca si specializza nell’eliminazione dei rivali interni, strangolando personalmente il boss Vincenzo Milazzo e la compagna incinta Antonella Bonomo.
Il 23 maggio 1992, Brusca preme il telecomando che fa esplodere 500 kg di tritolo sotto l’autostrada Palermo-Capaci, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. La strage, concepita come ritorsione per i successi investigativi di Falcone, segna un punto di non ritorno nel conflitto tra mafia e Stato.
Ma il crimine più atroce rimane il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, 12 anni, figlio del pentito Santino Di Matteo. Rapito nel 1993 per costringere il padre a ritrattare, il bambino viene tenuto prigioniero per 779 giorni, strangolato a 15 anni e sciolto nell’acido nitrico per cancellarne ogni traccia. Brusca ammetterà: "Non riesco a ricordare tutti i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento".
Catturato il 20 maggio 1996 ad Agrigento dopo un blitz della Squadra Mobile, Brusca inizialmente tenta di depistare le indagini, fingendosi pentito. Solo nel 1997, sotto la minaccia di perdere i benefici, inizia a collaborare davvero, rivelando dettagli su oltre 100 omicidi e sul papello, il documento con le richieste di Cosa Nostra allo Stato. Le sue confessioni portano alla condanna di decine di mafiosi, tra cui Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, e gli valgono lo status di collaboratore di giustizia nel 2000.
Grazie alla legge sui pentiti voluta da Falcone stesso, la sua condanna viene ridotta da ergastolo a 26 anni, con ulteriori sconti per buona condotta. "La televisione è un gioco serio", dirà in un’intervista, ma la sua collaborazione solleva dubbi: l’ex PM Antonio Ingroia lo accusa di aver taciuto verità scomode sulla trattativa Stato-mafia.
Il 31 maggio 2021, dopo 25 anni di carcere, Brusca esce da Rebibbia per entrare in libertà vigilata, conclusasi il 5 giugno 2025. Nonostante le proteste delle vittime – come Tina Montinaro, vedova di un agente ucciso a Capaci – la legge non consente di mantenerlo in carcere a vita.
La sua liberazione riaccende il dibattito sull’efficacia del pentitismo e sul concetto di giustizia riparativa. Maria Falcone, sorella del magistrato, commenta: "È una legge che mio fratello ha voluto, e va rispettata" mentre il giornalista Saverio Lodato, autore del libro Ho ucciso Giovanni Falcone, lo definisce "un mostro che ha scelto di sopravvivere".
La storia di Brusca riflette le contraddizioni della lotta alla mafia: da un lato, la necessità di fare luce attraverso i pentiti; dall’altro, il rischio di svilire la memoria delle vittime. La sua figura, sospesa tra il ruolo di boia e testimone, rimane un monito sulle radici profonde del potere mafioso e sulla fragilità delle istituzioni. Come scrisse Giorgio Bocca dopo il suo arresto: "Sembrava di essere a Città del Messico la sera che vi entrò Pancho Villa". Oggi, mentre Brusca cammina libero, la sfida è non dimenticare.
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