Attualità
									Vangelo e società, due parole che sembrano allontanarsi nell’ombra di uno stile di vita che punta sempre di più individuale e virtuale. Ma c’è la ricetta evangelica del nuovo parroco di San Feliciano che con pochi ma chiari ingredienti cerca di riportare le persone, e soprattutto i giovani, a riscoprire la propria identità e la propria umanità vivendo il mondo anche attraverso la Chiesa.
- Monsignor Cristiano Antonietti, dopo quattordici anni di sacerdozio, è ancora il prete più giovane della Diocesi e domani diventerà ufficialmente il parroco della Cattedrale di San Feliciano, che emozione si prova?
È un ritorno al primo amore, una grande possibilità che mi viene data e dalla quale derivano anche grandi responsabilità. Il vescovo Gualtiero mi ha ordinato sacerdote proprio in questa chiesa il 25 settembre del 2011 e per me, che accolgo con gioia e in spirito di filiale obbedienza la nomina del vescovo Domenico, tornare in Cattedrale significa tornare alle origini, alla Vocazione. Nel catino absidale della chiesa di San Feliciano c’è una frase che ancora oggi mi commuove: “Sponsabo te in fide”, ti sposerò nella fedeltà, l’ho sempre sentita rivolta a me, ora ancora di più.
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- Come immagina la sua parrocchia ideale?
Per me la parrocchia deve essere un luogo dove le persone devono sentirsi accolte e fiorire scoprendo i propri talenti. Passeggiando per le vie di Foligno mi capita di vedere spesso molti giovani un po' abbandonati, confusi senza un obiettivo; ecco perché credo che il sacerdote debba essere una figura di riferimento e debba quindi tornare nelle famiglie e nella strada per avvicinare la società ai valori del Vangelo.
- Secondo lei il fatto di essere un sacerdote così giovane può aiutare a recuperare questo rapporto tra società e Chiesa?
Sicuramente la mia età e le esperienze nel mondo giovanile sono un buon punto di partenza. Sono stato sempre impegnato negli oratori, nel mondo scoutistico e della scuola, nella Quintana, insomma giovane tra giovani. Credo che il sacerdote deve essere vicino ai giovani, deve ascoltare, aspettare e pazientare, ma esserci per loro vuol dire soprattutto saper anche dare una parola ferma e soprattutto essere autorevoli per coerenza e testimonianza di vita. Non voglio fare il discorso del solito prete ma i giovani hanno bisogno di punti di riferimento e di chiarezza. Hanno bisogno di trovare in parrocchia dei pastori gioiosi che riescano a far staccare lo sguardo dagli schermi dei cellulari per farli alzare verso l’alto ed incontrare la misericordia e la bontà di Dio.
- Come ha reagito la comunità alla sua idea di sospendere le messe in parrocchia nel mese di ottobre per celebrarle ogni sera nelle famiglie?
È il secondo anno che lo faccio e sono davvero tante le famiglie che stanno partecipando chiamando a casa propria vicini e amici per la celebrazione della Messa. Loro vedono in me un prete, che è un ragazzo e che può ascoltarli in un clima familiare che ci fa tornare allo stile delle prime comunità cristiane, insomma un modo per abbattere tanti muri e per tornare all’essenzialità della fede.
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- Nella sua carriera ecclesiastica è stato anche diplomatista della Santa Sede in Mozambico, come si conciliano le formalità e le regole del Vaticano con la vita a Maputo?
Io stesso ero diffidente verso l’aspetto della chiesa gerarchica ma là ho scoperto anche il ruolo della diplomazia della Chiesa e il vero lavoro delle suore missionarie che tutti i giorni aiutavano una popolazione allo stremo. Quando sperimenti una quotidianità del genere riscopri l’essenzialità della vita.
- Lei è stato Cerimoniere di Papa Francesco e ha lavorato a stretto contatto lui, ci può raccontare che uomo era?
Era un uomo vero, incapace di mentire, era vicino alle persone ma autorevole. Aveva un’umanità splendida e ricchissima che lo portava a mostrarsi così com’era senza la paura di perdere il consenso. Aveva molta cura dei suoi collaboratori tanto che ci domandava sempre come stessero le nostre famiglie e spesso entrava in ufficio con un dolce in mano per condividerlo con noi. Era anche molto ironico; quando vedeva me insieme al mio collega segretario ci chiamava Batman e Robin e lo faceva pubblicamente senza la paura di rompere le formalità.

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