GIUSTIZIA
Cominciamo con dire che una cosa dovrebbe essere sacrosanta, soprattutto in Parlamento: le leggi vanno scritte bene, a tutela delle vittime e anche degli indagati-imputati. Chi sbaglia, paga: con la certezza di scontare la pena fino all'ultimo giorno di condanna. Ma il giudizio deve basarsi su prove certe.
E’ soprattutto la politica che deve pretendere uno Stato di diritto equo e giusto. Ma le norme in materia di stupro sul cosiddetto “consenso libero e attuale”, frettolosamente approvate alla Camera e rimesse in discussione al Senato dopo le parole di Matteo Salvini e Giulia Bongiorno, hanno sollevato più di un dubbio. In giuristi, opinionisti e semplici cittadini.
E’ una proposta di legge che consiste in un unico articolo. Quindi, una discussione che può anche essere breve, purché maturi non sulla base di slogan.
Per il testo a cui Montecitorio ha detto sì, qualunque atto sessuale posto in essere senza che vi sia il consenso libero e attuale della persona coinvolta è configurabile come reato di violenza sessuale. E’ normale? Occorre evitare di produrre una legge che, pur nella volontà di punire chi si macchia di reati orribili, non diventi “sbagliata” nella sua applicabilità.
Bisogna garantire una grande sensibilità interpretativa, dotarsi di linee guida chiare, di una formazione specifica per magistrati e forze dell’ordine e soprattutto far crescere una cultura del consenso condivisa, che non sta solo in una norma penale.
Diversi sono i punti critici che stanno facendo emergere diversi soggetti rispetto a quanto stabilito a Montecitorio. Sono aspetti tecnici che, senza negare le buone intenzioni della legge, mostrano dove possono nascere problemi pratici. A partire da una bilancia della giustizia particolarmente oscillante… Anzitutto la difficoltà nel provare l’assenza di consenso quando non c’è violenza fisica. Questo rende più frequenti i casi basati solo su parole contro parole; interpretazioni del comportamento; percezioni soggettive. E sarà davvero complicato il lavoro del pubblico ministero.
Egli si troverà nella condizione di dover ricostruire stati mentali e segnali non verbali, cosa molto più complessa della prova di violenza fisica o coercizione. E di conseguenza l’accusa rischia di basarsi su elementi meno solidi, aumentando l'incertezza e la discrezionalità.
Gli esperti segnalano in secondo ordine il rischio di “over-criminalizzazione” di situazioni ambigue o mal comunicate. Ecco che vuol dire: molti rapporti sessuali non avvengono con un “sì” verbale esplicito. Il consenso spesso è implicito, contestuale, relazionale, e può essere espresso con forme varie di partecipazione, gesti, reciprocità. La norma però richiama un “consenso libero e attuale” che tende a essere interpretato come chiaro, attivo, riconoscibile.
Provate a dimostrarlo: rapporti con comunicazioni ambigue o con segnali confusi potrebbero essere letti ex post come privi di consenso. Ancora: uno dei punti più delicati è la possibilità che ci si trovi di fronte all’inversione dell’onere della prova. Giuridicamente, l’onere resta sul Pm. Ma nella pratica processuale l’imputato potrebbe sentirsi costretto a dimostrare che credeva in buona fede nel consenso; che la persona era partecipe e che non aveva motivi per dubitare. Alzi la mano chi pensa che sia una cosa semplice se si è in buona fede. Nella sostanza l’effetto psicologico e strategico della norma è che l’imputato deve portare prove difensive attive. La Costituzione dice questo? Così facendo, si altera l’equilibrio percepito del processo penale.
Altro aspetto: come si valuta la cosiddetta retrospettiva del “consenso attuale”? Il consenso può essere revocato durante l’atto sessuale. Ma ricostruire, a distanza di giorni o settimane: se è stato revocato, come, in che momento, se l’altra persona poteva accorgersene è praticamente impossibile, soprattutto in assenza di segni fisici o testimoni. Immaginatelo in un processo: la ricostruzione temporale diventa una battaglia di narrazioni, senza elementi oggettivi.
Ultima questione, ancora più complessa. L’aumento del carico di cause sui magistrati e il rischio di interpretazioni disomogenee in un territorio anziché in quello accanto. La legge chiede ai giudici di valutare: stati emotivi, la consapevolezza soggettiva, segnali di assenza di consenso non verbali, condizioni psicologiche e relazionali. Tutto questo richiede formazione specifica, sensibilità, e criteri uniformi. Ma non tutti i tribunali lavorano nello stesso modo. Lo spettro davanti a noi si prospetta con una giurisprudenza frastagliata e sentenze molto diverse a seconda della sezione giudicante. Evidente così il rischio di disparità territoriali.
In sintesi, certamente la riforma vuole proteggere meglio le vittime, il che rappresenta un intento nobile e necessario. Ma diventa sempre più complicato con prove più fragili e difficili da dimostrare e zone grigie molto ampie. Scrivetela bene questa legge, cari parlamentari...
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