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L'intervista

Gubbio, Gabriele Riccardo Tordoni racconta la sua scelta di vita: "Porto il teatro fuori dal teatro"

Regista, attore e formatore è ideatore del progetto Marozia. "Costruiamo la comunità"

Anna Maria Minelli

27 Novembre 2025, 21:00

Gabriele Riccardo Tordoni

L’amore per il teatro lo pervade nel suo farsi, tra le quinte, mentre i tecnici stanno allestendo la scenografia, durante le prove delle luci, quando la platea, i palchi sono ancora vuoti. Lì c’è Gabriele Riccardo Tordoni, che in silenzio osserva ogni movimento, ogni costruzione dell’attesa e prima che si alzi il sipario sta già immaginando lo spettacolo che prende forma. Regista, attore e formatore, nato a Perugia, dopo aver viaggiato tra Italia e Europa è tornato nella sua terra d’origine, in Umbria, scegliendo di vivere a Gubbio, dove insegna, recita e racconta la storia del nostro tempo. 

- Quando hai capito che il palcoscenico sarebbe stato la tua vita?
Dopo il diploma al liceo Alessi di Perugia mi sono iscritto alla Facoltà di Medicina che ho frequentato per due anni ma non mi sentivo a mio agio. Poi credo fosse in occasione di una Festa dell’Unità, un mio amico mi invitò a partecipare al Teatro di Sacco. Un’esperienza che mi piacque molto. Un secondo momento l’ho vissuto al Teatro Morlacchi e poi ho scelto di frequentare l’Accademia di arte drammatica Paolo Grassi a Milano dove sono rimasto per 12 anni, dal 1993.

- Un percorso molto impegnativo immagino.
In accademia studiavamo anche 12 ore al giorno, si iniziava la mattina alle 8. Per entrare c’era una selezione spietatissima, da 800 il primo anno siamo scesi a 24 e al secondo eravamo in 12. Ho avuto modo di collaborare durante la formazione con Eugenio Allegri, Massimo Navone, Marco Paolini, Giampiero Solari, Gabriele Vacis e altri ancora. Un’esperienza dura ma che mi ha dato tantissimo.

- Poi come è proseguita?
Ho recitato in tutta Italia, mi piaceva molto farlo. Sono stato anche all’estero ma ad un certo punto ho sentito una sensazione di vuoto. Ero a Vercelli e dopo uno spettacolo mi sono chiesto cosa sarebbe rimasto agli spettatori una volta usciti dal teatro. Ho sentito la necessità di costruire un percorso di formazione in tal senso, perché il rischio che si corre è che il teatro appaia come un circolo chiuso, per addetti ai lavori, per un pubblico ristretto, con un vocabolario interno che non è comprensibile a tutti e che può apparire autoreferenziale. Ho vissuto poi un periodo molto importante in Puglia, tra Otranto e Lecce, mi sono innamorato di quei luoghi. Non riuscivo però a lavorare come avrei voluto, continuavo a vedere il teatro non come fine ma come strumento.

- Perché hai scelto di trasferirti a Gubbio?
Su suggerimento di un amico che mi disse come questo fosse un luogo in cui sperimentare.

- A Gubbio come è stato il primo approccio con il pubblico?
Potrei risponderti duro come la pietra della città ma allo stesso tempo è stato vitale, richiedeva di rimettermi in gioco. Pensa che facevo delle incursioni al pub Village, con musica e letture, apparivo all’improvviso. Sono partito con laboratori, spettacoli, ho proseguito con la scrittura, attivando molte collaborazioni con gruppi, associazioni, scuole. Mi hanno preso a cuore i fratelli Giampaolo e Giammario Grassellini, il mio battesimo eugubino è stato con loro. Ho scritto anche uno spettacolo sulla storia di un pugile con Giampaolo.

- Sei regista e attore di moltissimi spettacoli, tra questi Francesco polvere di Dio, che conta più di cento repliche. Perché hai scelto San Francesco?
Lo spettacolo è nato casualmente, ho vissuto un anno ad Assisi, senza conoscerlo e devo dire che mi stava anche antipatico. Mi sono avvicinato alla sua figura umana chiedendomi come sarebbe stato Francesco se avesse vissuto ai nostri tempi. Figlio di una famiglia ricca, con un percorso agevolato. Attratto da una vita dissoluta, cosa gli sarebbe accaduto? Avrebbe fatto uso di droghe? Come sarebbe arrivato alla scelta di abbandonare tutto?

Da sinistra Paolo Ceccarelli, Gabriele Riccardo Tordoni e Simona Bianchi 

- E’ cambiato il tuo modo di raccontarlo nel tempo?
In un certo senso il racconto di Francesco è cresciuto con me. Ho un canovaccio che va dalle 2 ore e 20 alle 4 ore e 20 e che cambia anche rispetto a ciò che accade oggi e a seconda del pubblico che ho davanti, di quello che mi trasmette. Collaborano con me Simona Bianchi come drammaturga, mia compagna anche nella vita, che ha curato la pubblicazione del testo e che inoltre canta nel corso dello spettacolo e Paolo Ceccarelli con il suo prezioso lavoro per la parte musicale. Sono stato chiamato a recitare in parecchi festival religiosi, ricordo in particolare quando ho portato lo spettacolo al XIII Convegno di Greccio organizzato dal Centro Culturale Aracoeli. E’ stata una bellissima esperienza, tra le recensioni ho ricevuto anche quella del cardinale Pierbattista Pizzaballa (patriarca di Gerusalemme ndr.), che mi ha molto colpito e gratificato.

- Grande spazio nella tua attività ha la formazione. Questo mi porta a chiederti del progetto Marozia.
Al quale tengo moltissimo. La formazione è proprio il fulcro della mia attività per diffondere la cultura del teatro. A spingermi a rendermi disponibile in tal senso è stata Simona che è un’educatrice e che collabora con me anche per altri progetti come drammaturga. Marozia è nato proprio con la volontà di portare l’esperienza formativa del teatro verso un pubblico che fosse il più ampio possibile. Partecipano persone che hanno dai 12 ai 70 anni, si tiene grazie a protocollo d’intesa tra Comune di Gubbio, Settimana del libro, distretto Alto Chiascio Usl Umbria 1, Iis Cassata Gattapone, polo liceale Mazzatinti, scuola secondaria di primo grado Mastro Giorgio-Nelli. A fine maggio prossimo, andremo in scena al teatro comunale Luca Ronconi a Gubbio, con i partecipanti ai laboratori e con alcuni allievi della scuola di musica di Paolo Ceccarelli Al Fondino. I corsi si svolgono alla ex palestra di San Pietro e sono gratuiti, una scelta che davvero apre le porte a tutti. Sono centinaia di persone, da molte di loro ho ricevuto una serie di feedback su quanto sia stato e sia utile farne parte, parole che mi danno ulteriore spinta nel proseguire quanto intrapreso. Alcune frasi sono davvero commoventi.

- Cosa hai visto in questi anni?
Siamo al terzo anno del progetto che spero possa proseguire proprio per il movimento che è riuscito a creare in città. La coesistenza tra generazioni rende Marozia un’esperienza unica, favorendo la creazione del senso di comunità. Ho assistito ad una crescita soprattutto da parte di coloro che avevano maggiori difficoltà a rapportarsi con gli altri, per proprie problematiche, per una disabilità. In quel momento siamo tutti uguali ma ognuno con le sue potenzialità da esprimere, un lavoro che è anche molto fisico. Ha favorito percorsi di integrazione, come è accaduto per un ragazzo arrivato in Italia da un altro Paese e che ha trovato la spinta per studiare e prendersi un diploma. Da questa esperienza ne è nata poi un’altra, un gruppo che ha deciso di dedicarsi al teatro, CoroAperto, ragazzi dai 14 ai 28 anni, con i quali lavoro da più tempo e dalle grandi potenzialità, ai quali poter lasciare la mia “eredità” come testimone per i più giovani. Perché il teatro è fondamento della civiltà e se ci pensi è ciò che hanno fatto gli stessi Greci.

- A cosa stai lavorando?
Ad uno spettacolo su Gesù, Il figlio dell’uomo. La mia visione parte dal termine mamzer, che significa illegittimo. Come ha vissuto lui? Si è sentito escluso, “diverso” dai fratelli, dal padre? È lo stesso approccio che ho avuto con Francesco: spogliando queste figure di tutto l’apparato che si è creato intorno, diventano degli esempi, percepiti come esseri umani che hanno vissuto in modo appassionato.

- Ti sei mai pentito della tua scelta?
No, sto realizzando quello che sentivo di fare anche se non è sempre facile: portare il teatro fuori dal teatro. È un approccio più vicino a quello che è il teatro di strada, un contesto meno ufficiale. E sai cosa ho davvero compreso in questi anni? Che il miglior regista è sempre il pubblico.

- Vai ancora dietro le quinte?
Sempre. Il teatro è tutto, non solo il momento in cui si alza il sipario e si accendono le luci. È anche quello che c’è prima dell’attore, del regista e che solo i tecnici vedono. E lì sento di esserci anche io.

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