Il personaggio
Pierfrancesco Favino
"Vediamo Jannik, ma non quello che c'è dal decimo posto in giù", così l'attore Pierfrancesco Favino ha esordito in un'intervista al Corriere della Sera presentando il suo Raul Gatti, protagonista del film "Il Maestro" diretto dal regista Andrea Di Stefano e già disponibile nelle sale italiane. Il tennis per l'attore è sempre stato "un amore non corrisposto", ma in un periodo in cui "tutti siamo un pò tennisti", interpretare "ciò che non si vede" resta un modo per raccontare uno sport che esula da "un momento di ossessione per performance e successo". Ed è stato proprio grazie ai panni di Raul che Favino ha riscoperto una versione "inedita" di sè stesso, più "fragile" e consapevole che in fondo "non siamo fatti per stare da soli".

("Il Maestro" al Festival Internazionale del Cinema di Venezia)
Un sentimento che l'attore pativa "moltissimo" e che l'ha spinto a voler diventare un attore: "Una delle ragioni per cui faccio questo mestiere è la dimensione di gruppo. Il film è un lavoro di squadra. Amo andare sul set alle 8 di mattina e trovarci la troupe. Quando sono in trasferta scelgo l'appartamento, non l'albergo: ho bisogno di fingere che le mie abitudini non muoiano. Faccio la spesa, cucino... Una grande mano me l'hanno data le mie figlie, facendomi sentire sparso, ramificato nel mondo. È buffo ma è così".
E parlando di solitudine e di tennis, il pensiero va anche al campione altoatesino: "Quando Jannik è scivolato al secondo posto dietro Alcaraz, ho pensato che fosse meglio per lui, per il ragazzo. Chi di noi può conoscere il livello delle energie di Sinner a fine stagione? Io mi fido delle sue scelte. Quando sei lassù, non hai nessun paravento. Sei solo ed esposto all'osservazione e alle critiche di tutti".
L'attore si è definito "una persona totalmente inaffidabile", ricordando di aver avuto "più storie contemporaneamente. Sono stato un bugiardo cronico, ho finto di avere soldi che non avevo, ho dato appuntamenti a cui non mi sono mai presentato. Ero il ragazzo romano che l'amica ti diceva: non ci uscire, con quello! Sono ancora di tutto un po'. L’identità è una convenzione sociale repressiva", ha spiegato Favino.
Il desiderio di fare l'attore è un sogno che non è mai stato nel cassetto: "Voglio recitare da quando ho sette anni. Mi ero accorto di far ridere, e questa dote gratificava me e i miei. Ero un intrattenitore: riuscivo a mitigare le ansie famigliari, a far stare bene le persone. In classe imitavo il professore: la mia patente di socialità. Non ero il figone della scuola, sopperivo così. Ultimo di quattro figli, con tre sorelle: fare il simpatico, arrivando in una tribù consolidata, mi ha dato un ruolo. Il mio spazio, la mia voce, li ho trovati così", ricorda. E ripensando a chi lo ha guidato nel suo percorso artistico, si limita a mostrare una cicatrice sull'anulare destro: "Questi due punti sono la morte di Vittorio Gassman. Sono in cucina e sto tagliando il parmigiano. La tv accesa dice che è morto Gassman. Mi giro di colpo, e mi affetto il dito. Non ho nulla della grandezza di Vittorio ma ho voluto andare sulla sua tomba al Verano. Memore del Sorpasso, quando si sveglia e chiede di fumare, gli ho lasciato una sigaretta".
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