Tennis
Jannik Sinner, numero 1 del tennis mondiale: dopo Cincinnati, gli Us Open
Jannik l’ha imparato in fretta cosa significa essere Sinner. Vivere da numero 1. Non è un titolo, è un obbligo. Non basta averlo conquistato: ogni settimana va difeso, ogni lunedì può svanire nelle classifiche. E chi si ferma paga subito. A Cincinnati si è presentato in finale contro Carlos Alcaraz senza le energie per giocarla davvero. Cinque game da automa, svuotato; il ritiro. Non avrebbe dovuto esserci, ma un numero 1 non ha scelta: deve scendere in campo comunque, anche a rischio di crollare. Quel “basta” non è stato solo un gesto di stanchezza. È la crepa che mostra quanto fragile sia la vetta.
Da quando è salito in cima alla classifica poco più di un anno fa - primo italiano nella storia - Sinner non ha più avuto tregua. Ogni torneo è un esame, ogni passo falso un processo. Il ranking non è più un traguardo, ma un tribunale.
E il verdetto arriva ogni settimana. Se vinci, confermi. Se ti fermi, sei colpevole. Ora la matematica dice che agli US Open (lo Slam alle porte), Sinner difende 2.000 punti. Alcaraz solo 50. Se lo spagnolo arriverà in fondo e l’azzurro no, il sorpasso sarà inevitabile. Ma il punto non è questo.
Il fatto, piuttosto serio, è che Sinner ha tenuto in piedi una stagione che il tennis di oggi non perdona. Ha scontato tre mesi di squalifica per una sostanza senza dolo, che lo ha tenuto lontano da Indian Wells, Miami, Montecarlo, Madrid. È rientrato a maggio. Da lì in poi ha fatto prodigi non pronosticati: finale a Roma, finale a Parigi, ha vinto Wimbledon.
In tre tornei pesanti è arrivato sempre fino all’ultimo giorno. Non sopravvivenza, ma crescita esponenziale. Ha imparato a stare sulla terra (rossa), ha conquistato l’erba, ha limato ogni dettaglio del suo gioco a partire dal servizio. Eppure basta un ritiro per far ripartire i dubbi. È il paradosso: più diventa forte, più diventa vulnerabile. Perché nel tennis moderno non basta vincere: bisogna vincere sempre.
Il numero 1 non protegge, espone. Ogni frenata diventa un referendum.
Per di più gli avevano dato del robot. Freddo, calcolato, incapace di emozionare. Ma i robot non si fermano. Lui, il perfezionista, sì. E lo ha fatto davanti a tutti, mostrando che dietro la calma c’è anche la fatica. Indicibile. Dietro la disciplina c’è un ragazzo di 23 anni che sa dire basta prima di farsi male. Molto male.
Carlos Alcaraz, più giovane di lui e già numero 1 più precoce della storia del tennis, lo ha capito. Nessuna esultanza, solo un abbraccio e un “Sorry Jannik” scritto sulla telecamera. Non era un gesto di rivalità, ma il riconoscimento di chi sa davvero quanto costi vivere lassù a dispetto delle vacanze a Ibiza. Più in alto di tutti, ma anche più solo di tutti.
Sinner, sia chiaro, non ha bisogno di consolazioni, buonismo; di alibi. Ha già cambiato la storia del tennis italiano. Se perderà il numero 1, tornerà a prenderselo. Se non lo farà (e la vediamo durina), resterà comunque ciò che è: un campione che non ha mai venduto nulla, nemmeno la propria fatica.
Il vero choc non è che un numero 1 si fermi. Il vero choc è pensare che per esserlo debba rinunciare alla sua parte più umana. Jannik, uno di noi.
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