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L'intervista

Acqua e coscienza: con Marco Paolini un viaggio collettivo dalla Rocca di Sant'Apollinare all’Agenda 2030

Incontri della Fabbrica del Mondo 2025: un viaggio tra scienza, arte e cittadinanza attiva per ripensare il nostro rapporto con l'acqua, tra tutela e adattamento alla crisi climatica

Sabrina Busiri Vici

05 Agosto 2025, 20:23

Marco Paolini

Due giorni per ascoltare, confrontarsi e immaginare un nuovo rapporto con l’acqua, bene comune e risorsa fragile. Alla Rocca di Sant’Apollinare, nel cuore verde di Marsciano, martedì 5 e mercoledì 6 agosto si tengono gli Incontri della Fabbrica del Mondo, promossi con Umbria Green Festival e il Comune di Marsciano. “Tutela delle acque, tutela dalle acque” è il filo conduttore dell’edizione 2025: un gioco linguistico che diventa proposta concreta, tra scienza, arte e cittadinanza attiva. Sul palco protagonisti come Marco Paolini e la climatologa Elisa Palazzi, accanto a ecologisti, scrittori e studiosi.

Martedì 5 si parlerà di falde, fiumi e gestione delle risorse idriche, mentre mercoledì 6 il focus sarà sull’adattamento alla crisi climatica, tra alluvioni, prevenzione e forestazione. A chiudere, lo spettacolo Bestiario idrico - Studio per un racconto, firmato dallo stesso Paolini. “I temi che affrontiamo sono quelli dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite – spiega Paolini –. La Fabbrica del Mondo dà voce alla scienza, ai ricercatori e agli artisti per avvicinarsi ai grandi argomenti che stanno dietro i numeri dei rapporti scientifici, che alimentano la nostra conoscenza ma molto meno la nostra coscienza. Noi cerchiamo di avvicinare la coscienza alla conoscenza. Dare una consapevolezza fatta di empatia. Perché la scienza, a volte, arriva all’informazione, ma diventa notizia. E le notizie passano. Noi cerchiamo di renderle memorabili, di fissarle in testa, di trasformarle in pro-memoria”.
– Perché proprio l’acqua al centro di tutto?
Perché è una delle realtà più immediate da collegare all’esperienza quotidiana, e dunque più facili da fissare nella memoria. Ogni volta che c’è un’alluvione, il fatto ci tocca direttamente. Lo stesso accade nei periodi di siccità: ci preoccupiamo della risorsa idrica, almeno temporaneamente. Potremmo – e dovremmo – occuparci allo stesso modo della qualità dell’aria. In quel caso, però, mentre la quantità può sembrare sufficiente, la qualità no: non tutti respiriamo la stessa aria. L’acqua, invece, è un elemento che si intreccia naturalmente con l’aria, il paesaggio, con il mondo che viviamo. Diventa così un filo conduttore per parlare di biodiversità, sviluppo urbano, consumo di suolo, di ciò che vogliamo vedere fuori dalla finestra e di quello che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli.
– Come si costruisce un racconto collettivo sull’acqua in un tempo in cui la narrazione pubblica sembra sempre più frammentata e polarizzata?
L’acqua, di per sé, è un racconto collettivo, per forma e sostanza. Nessuna voce isolata, oggi, è in grado di generare partecipazione ed empatia tali da rianimare le comunità. Servono voci corali. Il nostro lavoro consiste nel mettere insieme più artisti, farli lavorare su territori diversi e in relazione con comunità differenti.
– Lei ha sempre intrecciato memoria e attualità. Quali storie o temi sente oggi più urgenti da “gettare” in questo Atlante?
L’Atlante delle Rive raccoglie molte urgenze legate al cambiamento climatico e alle sue ingiustizie: migrazioni, perdita di accesso all’acqua potabile, trasformazione dei paesaggi, impoverimento di intere aree del pianeta. Affrontare tutto questo su scala globale serve fino a un certo punto, perché c’è sempre qualcuno che pensa: “io speriamo che me la cavo”. Per questo bisogna mettere in relazione le grandi questioni globali con le realtà locali. Non si può fare ecologia all’ingrosso. Atlante delle Rive, capitolo centrale della Fabbrica del Mondo, mescola i saperi di scienziati diversi per costruire narrazioni trasversali, capaci di unire prospettive differenti.


– Qual è il contributo dei territori, come quello umbro e la Rocca di Sant’Apollinare, alla forza di un progetto come questo?
I territori ci mettono molto del loro. La Rocca di Sant’Apollinare, in particolare, è un luogo segnato dalla distruzione e dalla ricostruzione, trasformato da spazio di difesa a luogo abitato. Oggi è di proprietà di una Fondazione legata all’Università di Perugia, che si occupa di ricerca sulle biomasse. È significativo che questo luogo, che guarda al futuro attraverso la scienza, ospiti anche una riflessione sul paesaggio e sulle risorse. C’è poi un pozzo, presente lì: da dove prende l’acqua? Quanto è profonda la falda? Che legame c’è tra l’acqua che scorre in superficie e quella che beviamo ogni giorno? Sono domande che ci riportano a una connessione concreta, quotidiana.
– Come lavora oggi sulla parola e sul corpo scenico, in relazione al paesaggio, dopo tanti anni di trasformazioni nel linguaggio teatrale?
Non porterò uno spettacolo chiuso. Sarà uno studio, che raccoglie materiali e frammenti di lavori precedenti su altri bacini idrografici, intrecciati con elementi che parlano del luogo in cui mi trovo. Ma in fondo riguarda la natura di tutti i luoghi: la relazione tra l’acqua di superficie e quella profonda, tra acqua pulita e acqua sporca, tra i sistemi del nostro abitare e ciò da cui dipendono. Uso il teatro di narrazione, senza personaggi fissi. C’è un narratore che diventa, di volta in volta, personaggio, paesaggio, contesto. In scena sarò solo, ma ciò che porto fa parte di un affresco più ampio, a cui lavorano altri attori, artisti, cittadini. Atlante delle Rive è un’opera complessa, una specie di saga. Ogni serata non può che essere una tappa di questo racconto collettivo.

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