Il film
Un giovane Robert De Niro in Taxi driver, pellicola del 1976
C’è un motivo se Taxi Driver non invecchia: è nato già incendiario. Martin Scorsese lo gira nel 1975 in una New York sudicia, incattivita, tagliata fuori da ogni decenza urbana. Le strade sono scure, piene di prostitute, spacciatori e gente che ha smesso di chiedere scusa. Travis Bickle – veterano insonne, tassista notturno, alienato cronico – non è un personaggio: è una scheggia impazzita lanciata in mezzo al traffico umano.
Stasera, domenica 11 maggio, Rai Movie lo manda in onda alle 21:10, come fosse un film qualunque. Non lo è. È un capolavoro. Considerata allora l’opera più pericolosa mai partorita dalla Hollywood anni ‘70, dove ogni dialogo, ogni silenzio e ogni sangue spruzzato sul muro è pura anestesia estetica del collasso mentale.
Lo script nasce da Paul Schrader, che lo scrive in tre settimane durante una crisi esistenziale, dormendo in auto a Los Angeles. Aveva in mente Dostoevskij, Camus, Bresson e un mucchio di rabbia repressa. Diceva: “Volevo raccontare cosa succede quando una persona smette di parlare con il mondo e comincia a parlare solo con se stessa.”
E De Niro? L’anno prima aveva vinto l’Oscar per Il Padrino – Parte II. Ma non si è montato la testa: per prepararsi a Taxi Driver, si è fatto assumere davvero come tassista a New York, con licenza regolare. Lavorava otto ore al giorno, nessuno lo riconosceva. Una volta ha anche caricato un certo Martin Scorsese, che non lo ha riconosciuto nemmeno lui.
La celebre frase “You talkin’ to me?” ("ma dici a me?") non era scritta. De Niro l’ha improvvisata nello specchio durante le prove. Scorsese non ha detto una parola. La scena è rimasta così com’era: cruda, disturbante, vera.
Sul set, le cose non erano tranquille. Jodie Foster aveva 13 anni e interpretava una prostituta. Per farle girare certe scene, fu affiancata da una psicologa e da sua sorella maggiore come controfigura. Il livello di disagio era tale che Harvey Keitel, che interpretava il suo protettore, improvvisò una scena in cui balla con lei. Il risultato? Inquietante.
E poi c’è Bernard Herrmann, il compositore di Hitchcock, che firmò la colonna sonora: jazz malato, fiati tossici, malinconia da fine corsa. Morì poche ore dopo aver consegnato le ultime tracce audio. Taxi Driver è stato il suo ultimo respiro.
Il finale? Nessuno lo capisce davvero. Travis è un eroe o un pazzo? La vendetta è reale o un’allucinazione? Lo spettatore si ritrova nel sedile posteriore del taxi, sudato, confuso, a domandarsi se ha appena visto la redenzione o il preludio di una strage.
Cannes nel 1976 gli dà la Palma d’Oro, ma in America la censura impazzisce: le scene finali vengono desaturate per non far sembrare il sangue troppo rosso. Scorsese si rifiuta di tagliarle: “Non mi interessa se pensano che sia fascista. Mi interessa se smettono di guardare.”
Ecco perché Taxi Driver resta ancora oggi un film che non chiede permesso. Non cerca di piacerti. Ti fissa dritto in faccia e ti chiede: “Tu stai parlando con me?” "Dici a me".
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