CRONACA
“L’unica reale tutela che gli imputati hanno avuto cura di adottare è stata quella di imporre ai dipendenti addetti alle attività del laboratorio di tenere il segreto su tutto ciò che riguardava il laboratorio. Il segreto serviva a proteggere i soci da eventuali controlli o indagini che inevitabilmente avrebbero condotto all’immediata interruzione dell’attività, sia per il suo oggetto che per le macroscopiche violazioni della normativa sulla sicurezza del lavoro”. Il passaggio è contenuto nelle 282 pagine di motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise di Perugia ha condannato tutti gli imputati per l’esplosione alla Green genetics di Gubbio in cui morirono due persone, Elisabetta D’Innocenti e Samuel Cuffaro e altrettante rimasero gravemente ferite. In totale, i cinque imputati sono stati condannati a 70 anni di reclusione. Nello specifico, Alessandro Rossi era stato condannato a 18 anni e un mese, 14 anni e 20 giorni per Luciano Rossi, Giorgio Mosca e Gabriele Muratori e infine 10 anni, sei mesi e 15 giorni per Gloria Muratori.
Secondo i giudici - la corte era presieduta dalla presidente Carla Maria Giangamboni, a latere Elena Mastrangeli - gli imputati erano tutti “ben consapevoli delle violazioni che esistevano all’interno di quel laboratorio” che la pm titolare dell’inchiesta, Gemma Miliani, aveva ribattezzato “accrocco della morte”. In particolare “Alessandro Rossi perché aveva ideato il progetto e venisse messo in atto senza alcuna remora a violare le normative vigenti, Luciano Rossi perché lo aveva finanziato e aveva provveduto a coordinare le operazioni relative agli approvvigionamenti di pentano; Muratori Maria Gabriele in quanto braccio destro di Alessandro Rossi che - pur dopo aver avanzato critiche al suo operato - lo ha aiutato fattivamente anche nella scelta della dipendente ritenuta più affidabile da affiancare al giovanissimo Alessio Cacciapuoti; Mosca Giorgio per aver avallato - nell’ambito di uno strettissimo rapporto personale con Alessandro Rossi l’avvio delle operazioni di abbattimento del Thc in un locale di sua proprietà che ben sapeva essere inidoneo”.
I giudici nella sentenza mettono in fila una sfilza di omissioni che hanno portato all’esplosione: gli imputati hanno “omesso l’adozione di qualunque cautela necessaria per l’utilizzo del pentano”. Hanno “volontariamente omesso- per risparmiare tempo e denaro nonché per evitare pratiche amministrative che avrebbero potuto dar luogo a controlli - la collocazione nel locale adibito a laboratorio idonei impianti di ventilazione nonché la messa in sicurezza dell’impianto elettrico, dal quale erano alimentati macchinari privi di dispositivi di messa a terra dedicata. Era stata pretermessa la predisposizione di qualunque dispositivo volto a garantire la sicurezza dei lavoratori, era stata anche omessa qualsiasi informazione ai dipendenti addetti al laboratorio circa la pericolosità della sostanza utilizzata con la sola prescrizione di non fumare nel laboratorio. Tali macroscopiche violazioni - specificano i giudici - non erano casuali o riconducibili a inesperienza ma erano certamente deliberate e motivate dalla consapevolezza che l’attività svolta nel laboratorio era intrinsecamente illecita. Non basta, i giudici evidenziano che gli imputati “avevano fretta di avviare le operazioni di abbattimento di Thc in vista di una commessa importante e del conseguente profitto economico così da scegliere di soprassedere del tutto alla sicurezza. Anche all’eventualità di un incendio che gli imputati dovevano aver pensato perché avevano intenzione di munirsi di un estintore. “La possibilità di verificazine di un incendio era per gli imputati evenienza indifferente e non certo tale fondare un ripensamento del modo di procedere”.
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