CRONACA
La vicenda giudiziaria che vede protagonista Vittorio Sgarbi continua ad andare avanti. Accusato di aver diffamato una magistrata, il 29 ottobre 2024 per il politico e critico d'arte era arrivata la sentenza di non luogo a procedere, emessa dal Tribunale di Perugia. Ora la Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Perugia ha presentato appello contro la decisione del giudice.
Il procedimento giudiziario è iniziato a seguito di affermazioni fatte da Sgarbi nel novembre 2018 nei confronti di una magistrata, all'epoca Sostituta della Procuratore della Repubblica di Roma. Dopo l’udienza preliminare, il giudice perugino ha emesso la sentenza di non luogo a procedere basandosi sulla deliberazione della Camera dei deputati che dichiarava l’insindacabilità delle dichiarazioni di Vittorio Sgarbi. Tuttavia, la Procura Generale ha presentato appello, contestando la decisione e chiedendo una revisione della delibera parlamentare e delle circostanze che hanno portato alla sentenza.
Quali sono i motivi dell’appello?
Secondo la Procura Generale c'è stata un'erronea applicazione della legge, con il giudice che ha basato la sua decisione sulla deliberazione della Camera dei deputati del 25 settembre 2024, che ha dichiarato l’insindacabilità delle dichiarazioni dell’allora Onorevole Sgarbi.
Tuttavia, come scrive la Procura Generale, "si sostiene che tale deliberazione non rispetta i principi della giurisprudenza costituzionale. Inoltre - continua - è stato omesso un esame critico della delibera, che avrebbe dovuto considerare se le dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi avessero un nesso funzionale con l’esercizio delle sue funzioni parlamentari".
Infine la Procura Generale perugina ha affermato che "le affermazioni dell’onorevole Sgarbi, ritenute altamente diffamatorie, non sono state fatte, a nostro avviso, nell’ambito delle sue funzioni parlamentari, ma piuttosto per difendere un interesse personale, compromettendo così il dibattito pubblico". Ad avvalorare la sua tesi, la Procura Generale sostiene che "anche la scelta del mezzo adoperato per la diffusione delle dichiarazioni diffamatorie, una testata giornalistica online e una radio particolarmente seguita, rende le dichiarazioni non suscettibili della tutela costituzionale, riservata ai parlamentari".
Queste le motivazioni che hanno quindi spinto la Procura Generale a chiedere alla Corte di Appello di "sollevare un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e di disporre il giudizio nei confronti dell’imputato".
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