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L'INTERVISTA

Da allievo di Paracucchi a genio della tavola "Ora la sfida dell’Hilton"

Luca Mercadini

09 Novembre 2025, 11:44

Da allievo di Paracucchi a genio della tavola "Ora la sfida dell’Hilton"

Da giovane studente della celebre scuola alberghiera di Bellagio e allievo del grande maestro Angelo Paracucchi a re della ristorazione e genio del catering. E’ la storia di Rodolfo Mencarelli e della moglie Lisetta decisiva in alcune scelte strategiche che hanno fatto dell’impresa familiare un colosso nazionale simbolo di eccellenza del mangiar bene e dell’ospitalità.
- Quando ha capito che la ristorazione sarebbe stata la sua strada?
Credo che la passione per la buona tavola me l’abbia trasmessa fin da ragazzo, osservando le persone che si radunavano attorno a un tavolo, il piacere di stare insieme. Quando ho conosciuto Lisetta abbiamo condiviso la stessa idea: che non bastasse solo offrire un pasto, ma che ogni ospite potesse sentirsi accolto, coccolato. Così, il 27 dicembre 1967 abbiamo aperto La Taverna del Lupo, con l’idea di un locale che unisse genuinità, rispetto per la tradizione umbra, ma con un’attenzione all’eleganza e alla cura del dettaglio. L’idea era quella di iniziare a gennaio del 1968, ma volevamo provare con il cenone di fine anno che invece si rivelò un flop.
- Perché?
Il locale era vuoto, alla fine facemmo un solo piatto per il cuoco che naturalmente non pagò. Venivo da un’esperienza sul lago di Como e credevo si potesse fare la stessa cosa. Invece a Gubbio in quegli anni per l’ultimo e il primo dell’anno non c’era la consuetudine di uscire di casa. Le cose cambiarono, però, rapidamente. E ricordo bene che per il ponte del 19 marzo, San Giuseppe, all’epoca festivo, facemmo il tutto esaurito. Andavamo al di là della solita cucina eugubina, tagliatelle e bistecca, e i nostri piatti particolari cominciarono a piacere. Il passaparola ha fatto il resto.
- Prima però cosa era successo?
Mi chiamò Gigino Lisarelli del San Marco, dove andavo in passato ad aiutare: “Rodolfo fai un’offerta per la mensa della galleria della Contessa dove presto inizieranno i lavori”. Ero scettico, ma alla fine mi convinse. Così presi l’appalto comprensivo di bar, colazione, pranzo e cena per operai e dipendenti a 850 lire al giorno. Eravamo nel 1966, le cose andarono bene e da lì il passo successivo è stata l’apertura della Taverna del Lupo. Nel centro storico c’erano pochi ristoranti e il turismo era ancora agli albori.


- Taverna del Lupo che poi è diventata il quartier generale del Mencarelli Group
L’acquisto dei locali avvenne nel 1971 per 18 milioni di lire, all’inizio pagavamo l’affitto. Con l’aiuto di valenti architetti abbiamo restaurato e valorizzato tutto il ristorante che rischiava di diventare un magazzino abbandonato nel cuore del centro storico.
- Lei e Lisetta avete festeggiato di recente 60 anni di matrimonio.
Credo che la fiducia, il rispetto reciproco e la dedizione siano pilastri essenziali. In 60 anni di matrimonio, ci sono state gioie e difficoltà, come capita a tutti, ma la volontà di restare uniti ha sempre prevalso. Il fatto che fossimo una coppia nella vita e nel lavoro ha fatto sì che spesso le decisioni fossero prese insieme, che l’attività riflettesse anche i nostri gusti, i nostri valori. E quando le figlie – Daniela, Viviana e Agnese – sono cresciute, è stato naturale vederle entrare in azienda, continuando la scommessa familiare
- Come descriverebbe, oggi, quel primo giorno?
Eravamo timorosi, entusiasti, con poche risorse ma tanta energia. Oggi guardo l’azienda e vedo decine di collaboratori, eventi nazionali: il salto è enorme, ma il valore di fondo è lo stesso: volevamo conservare l’identità familiare, il calore, l’attenzione al dettaglio e al territorio.
- Quali sono per lei gli ingredienti immateriali — oltre ai prodotti — che determinano il successo di un ristorante?
Certamente la cura dell’accoglienza: far sentire ogni ospite importante. La capacità di “ascolto”. La presenza in sala del patron che coccola il cliente e lo consiglia è fondamentale. La professionalità: che non si improvvisa, va formata. La capacità di reinventarsi senza tradire l’identità: essere capaci di innovare con misura, sperimentare pur restando fedeli al proprio stile.
- Quanto pesano l’Umbria e la cultura eugubina nella sua visione del ristorante?
Sono il nostro cuore: i prodotti del territorio, la cucina locale, l’ospitalità tipica, il rapporto con l’arte, l’identità storica fanno da anima all’attività. Nei menù non possono mancare le eccellenze locali come funghi, tartufi, i sapori dell’Umbria; ma per attrarre clienti da fuori, bisogna offrire anche piatti con proposte internazionali, varianti gourmet.
- Come vive il passaggio generazionale?
Le mie figlie sono entrate gradualmente, aprendosi spazi, assumendosi responsabilità. Io sono contento, ogni figlia ha il suo compito e la terza generazione con i nipoti si sta inserendo gradualmente. La mia idea è che l’azienda debba restare unica se poi si vuole dividere, i compiti sono ben distribuiti e si vedrà.
- Qual è stato il momento più bello?
Vedere la prima sala piena, organizzare eventi grandi che portano visibilità nazionale (come le Olimpiadi, l’America’s Cup, Sanremo), vedere le figlie crescere in azienda e portare loro il proprio contributo. Un riconoscimento importante è stato il premio “Aquila di diamante” per i 50 anni di attività ricevuto con Lisetta. E poi dico il primo hotel nel centro storico: un sogno che si è avverato. Ricordo bene quando l’avvocato Gini mi offrì la possibilità di acquistare il Bosone Palace. Dopo una lunga trattativa chiudemmo per 52 milioni e un mazzo di fiori per Lisetta. Era il 1973 e subito dopo prendemmo anche il Gattapone. Più tardi nacque il Relais Ducale a palazzo Ranghiasci. Inizialmente pensavo a un ostello per giovani ma il posto era così bello che decisi per un hotel di lusso. Nel 1976 comprai anche il San Marco per 450 milioni ma con il mio socio avevamo idee che non collimavano.
- I momenti difficili?
Ripenso a qualche errore, come quando acquistammo un grande ristorante negli Stati Uniti. L’idea era valida ma non funzionò perché le figlie non mi seguirono. Così dovemmo andare io e Lisetta che ci alternavamo: 6 mesi a Gubbio e altrettanti in Pennsylvania. Non poteva funzionare. E’ stata però una grande esperienza formativa, così come quella in Giappone.
- Quali progetti o sogni ha ancora?
Consolidare le sedi attuali, potenziare il catering a livello nazionale e internazionale, continuare a lavorare su location prestigiose e uniche, formare giovani talenti del territorio per trasferire la conoscenza. E poi c’è la grande sfida dell’Hilton che parte con l’inaugurazione del 12 novembre a Perugia. Una volta ottenuta l’affiliazione alla grande catena americana io e il mio socio abbiamo deciso di sistemare l’hotel La Rosetta. In Umbria abbiamo l’esclusiva, pensiamo di ridare anche nuova linfa al centro storico del capoluogo. Sappiamo che la clientela Hilton tiene molto nei vari tour a visite in Umbria e ad Assisi. Noi a Perugia ci proponiamo come hotel intermedio tra Roma e Firenze.
- Un passo indietro: tra i tanti clienti molti vip. Chi ricorda in modo particolare?
Su tutti dico Terence Hill, un vero signore, che alla Taverna era di casa. E non dimentico nemmeno Renzo Arbore. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo.

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