LA STORIA
A Foligno, quando le strade sono ancora buie e il silenzio ha il passo lento della notte, Paolo Marini è già al lavoro.
Il suo mondo comincia mentre quello degli altri dorme. Accende il forno, sfiora la farina con un gesto che sembra un saluto antico e dà inizio al rito quotidiano: trasformare tre ingredienti elementari - acqua, farina, lievito - in qualcosa che parla di casa, memoria e radici.
La sua giornata scorre al contrario, dalle 23 alle 7. Un tempo sospeso, fatto di gesti che paiono scolpiti nella tradizione familiare. “Il pane nutre l’anima, non solo il corpo”, ripete mentre impasta accanto ai fratelli, immerso nel suono ritmico delle mani che lavorano. Nei suoi racconti emerge la Foligno di un tempo, quella che aveva oltre venti forni e in cui le massaie, in campagna e in montagna, cuocevano dieci filoni alla volta nei forni sotto casa. Oggi, nel comune, i panifici superstiti non arrivano a dieci.
La sua storia comincia molto prima di lui, quando suo padre emigrò in Svizzera per fare il fornaio. Da quell’esperienza lontana è nata una consapevolezza che Paolo porta addosso come un marchio: il pane è un simbolo, un nutrimento culturale prima ancora che materiale. Nel 1969 il padre tornò in Italia e rilevò un forno a Foligno, in via Vitelleschi, nel dedalo dei vicoli del centro storico. Da quel momento la panificazione divenne destino di famiglia. Paolo ricorda gli anni della scuola, quando all’alba preparava le consegne e poi correva a lezione con le mani che ancora profumavano di impasto. “Guardavo papà e speravo un giorno di essere all’altezza”, confessa con un sorriso che sa di gratitudine.
Oggi lavora con i fratelli Simone, Manuela e Daniela. Insieme custodiscono il lievito madre che accompagna la famiglia dal ’69. “È un essere vivente” - ripete - Respira, cambia, prende sapori diversi. È lui a dare profumo, struttura e personalità al pane. Le farine provengono dal territorio, perché la qualità - dice con orgoglio - si costruisce partendo dalla terra.
La sfida più grande è resistere alla concorrenza dell’industriale: pani precotti, surgelati, confezionati, che riempiono gli scaffali dei supermercati. “La gente va di fretta. Entra, compra tutto in un unico posto. Ma quello non è il pane del fornaio”.
Nel suo laboratorio si producono quindici tipi di pane, frutto di tradizione e sperimentazione. Perché innovare, dice, è necessario, anche se non sempre facile. “Chi ama il pane tradizionale all’inizio diffida delle novità. Ma quando un prodotto piace davvero, entra stabilmente nella nostra storia”. Tra nuvole di farina e fragranze calde, Paolo trova il senso del suo mestiere nel rapporto diretto con le persone: “Stare in bottega ogni giorno, raccontare quello che facciamo, scambiare sorrisi… è questo che crea fiducia”.
Il pane di Paolo nasce da una dedizione totale: per lui un buon pane si riconosce dal profumo, dalla fragranza, dalla capacità di conservarsi, ma soprattutto dall’amore che ci si mette. Alla fine della notte, guardando i filoni appena sfornati, Paolo sente che il suo lavoro diventa un dono quotidiano per la città. Una fetta di buon pane – dice – non fa mai male a nessuno. Il segreto del suo prodotto sta nel perfetto equilibrio tra tradizione, pazienza e una passione che non si spegne mai.
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