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Informazione gratuita: i cassonetti bianchi non sono della Caritas

Claudio Sampaolo

30 Ottobre 2025, 11:29

Informazione gratuita: i cassonetti bianchi non sono della Caritas

Ogni anno i 260 cassonetti bianchi installati nel Comune di Perugia, destinati al conferimento (voce del verbo “depositare correttamente”) di “indumenti usati, scarpe e borse in buono stato” raccolgono decine di  tonnellate di materiali, più o meno due kg per ogni abitante secondo le stime dell’Ispra (Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale).

Dove finiscono maglie, magliette, maglioni, camicie, biancheria intima, cappotti, pantaloni, cappelli, zaini, cinture senza fibbie, scarpe fuori moda o col buco sotto la suola, persino vecchie coperte con tarme incorporate? Eccoci al punto: certamente non vanno ad alimentare un malriposto senso di beneficienza nei confronti della Caritas, che ha rinunciato a questa gestione complessa ed a basso risultato finale più di 20 anni fa. Ma siccome i luoghi comuni sono duri a morire, nonostante sul frontale dei cassonetti ci sia scritto chiaramente chi si occupa di questa raccolta (Gesenu e Umbriafrip), don Marco Briziarelli, direttore della Caritas diocesana da 5 anni, a precisa domanda ha chiarito ancora una volta che “noi distribuiamo vestiti nei nostri empori e si tratta quasi sempre di abiti nuovi. L’usato, spesso malandato e inservibile, non arriva più qui da moltissimo. Eppure sento ancora molta gente convinta di fare donazioni liberando gli armadi di casa e riempiendo i cassonetti bianchi”.

E dunque venendo alla realtà dei fatti, che fine fa tutto questo volume di indumenti? Anzitutto, il contratto per la gestione è in capo alla Gesenu, al pari di tutto il resto che noi paghiamo con la Tari.

C’è poi un secondo livello, praticamente in ogni territorio, che delega ad una società specializzata (nella nostra regione la Umbriafrip, sede a Sant’Eraclio) il lavoro di raccolta e lavorazione, che prevede una prima selezione per escludere i capi non riutilizzabili e poi l’igienizzazione, da effettuare prima che gli abiti siano rimessi in quello che dovrebbe essere un ciclo virtuoso.

Fino a qualche anno fa, diciamo ante-Covid, il giro d’affari era abbastanza importante, con pacchi di prodotti rivenduti ad un tot al quintale alle aziende specializzate nel recupero e nella trasformazione in filato rigenerato, pezzame industriale ed imbottiture, mentre i capi migliori, pronti a tornare sui banchi dei mercatini italiani o più facilmente nel Terzo Mondo (nord Africa, soprattutto) potevano rendere anche 20-30 centesimi l’uno. Insomma ce n’era abbastanza per giustificare questo lavoro certosino di cernita.

Ora, però, questo settore di mercato è letteralmente crollato, in favore di quello del vintage, che intercetta i “guardaroba” migliori da smaltire. E alla fine, dentro i cassonetti restano praticamente poco più che degli “stracci”, pure di scarsa qualità (i grandi marchi del manifatturiero fanno in modo di far tornare alla base i loro capi “usati”, adottano intelligenti operazioni di marketing, tipo ritiro dell’usato) che anche il distretto tessile di Prato fa fatica ad assorbire.

Continuando di questo passo, il rischio è quello di veder sparire i cassonetti bianchi, col risultato di far confluire tutto nell’indifferenziato e di conseguenza in un inceneritore. Pessima previsione, ma questo è, in attesa di nuove strategie, nazionali e, naturalmente, regionali.

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