LA STORIA
A due passi dalla chiesa e dal monastero di San Feliciano di Mormonzone, a Foligno, il fine settimana ha un suono insolito: il colpo secco di una mazza che incontra una piccola palla. È il richiamo del cricket, lo sport nazionale del Pakistan, portato qui da un gruppo di venti, forse venticinque ragazzi che dal Paese asiatico hanno trovato nel cuore dell’Umbria non solo lavoro e studio, ma anche uno spazio per continuare a coltivare la loro passione più autentica. Sono operai, studenti, muratori. Non indossano divise scintillanti né scendono in campo in stadi gremiti.
Basta un prato, qualche palla, una mazza consumata, qualche sasso per delimitare il “campo” e tanta energia: il sabato e la domenica, in via Fano, il loro piccolo “campionato” prende forma. Non ci sono tribune, ma qualche curioso si ferma volentieri a osservare, attratto da quel gioco complicato e affascinante, che agli occhi italiani appare spesso un mistero.

Dare vita a una partita di cricket, lo sport che nel loro Paese è quasi una religione, è come riallacciare un filo sottile con la loro terra lontana. “Quando gioco mi sembra di essere di nuovo a Lahore - racconta Muhammad mentre stringe la mazza con mani segnate dal lavoro - non importa se siamo in un prato o in uno stadio: il cricket è la nostra lingua comune”.
Il campo non ha linee né tribune. È solo uno spazio casualmente verde, una parte del quale serve per la sosta dei Tir, che lungo viale Roma si presta allo scopo, ma basta per scaldare il cuore dei giocatori e incuriosire i passanti. Alcuni si fermano a osservare, cercando di decifrare le regole: battitori, lanciatori, wicket-keeper, fielders. Un gioco complesso, fatto di strategie e ruoli ben definiti, che per chi non lo conosce resta un enigma. Ma la passione che sprigionano i ragazzi non ha bisogno di traduzioni.

“In Pakistan il cricket ferma le città. Qui invece siamo solo noi, ma la passione è la stessa - dice con un sorriso Waseem - il sabato e la domenica, per noi, significano tornare in campo”. Non ci sono divise né guantoni professionali, solo un paio di palline consumate e la voglia di condividere un rito collettivo. Ogni partita diventa occasione di incontro, di amicizia, di appartenenza. “Il cricket ci insegna rispetto e lavoro di squadra - spiega Naveed - ma soprattutto ci fa sentire meno lontani da casa”. L’interesse in quello che stanno facendo li inorgoglisce, in fondo quello dello sport è un linguaggio internazionale che accomuna. Non importa il luogo di provenienza, il credo o il colore della pelle. L’importante è divertirsi in modo sano ed autentico. E il cricket non è solo tecnica e strategia: è un linguaggio universale che parla di amicizia, rispetto, leadership e gioco di squadra. Qualità che i ragazzi pakistani di Foligno sanno interpretare bene, trasformando ogni partita in un’occasione di socialità, condivisione e orgoglio identitario.

E poi, a ben guardare, in Italia questo sport vanta comunque una storia antica, arrivata con gli inglesi alla fine del Settecento, ma è rimasto sempre di nicchia. Complici le partite interminabili – che possono durare giorni – e le regole intricate, agli italiani appare spesso impenetrabile. Eppure, in quel prato di Foligno, la semplicità della passione supera ogni barriera. Così, tra un lancio e una corsa, tra una palla mancata e una presa spettacolare, il cricket diventa più di un gioco: è un ponte tra culture, una finestra su un altrove che qui, per qualche ora, sembra vicinissimo.
“Quando la palla vola in aria e tutti trattengono il fiato, è come se il mondo si fermasse - dice infine Khalood, con gli occhi lucidi - ed è in quel momento che sentiamo di non essere mai davvero lontani dal nostro Paese”. La piccola comunità pakistana conta ufficialmente un po’ più di un centinaio di persone, ma non è escluso che siano di più.
Il cricket, nato in Inghilterra ma diventato leggenda soprattutto nei Paesi del Commonwealth, in Pakistan è quasi una religione laica: i campioni sono celebrati come eroi nazionali e le partite internazionali paralizzano le città. Qui da noi questi ragazzi lo vivono con la stessa intensità, anche se in scala ridotta. Ci sono il battitore, pronto a difendere il wicket; il lanciatore, che scaglia la palla con forza e precisione; i fielders, schierati per intercettare ogni traiettoria; e il wicket-keeper, ultimo baluardo della difesa. Un microcosmo che, pur senza i fasti dei tornei ufficiali, ricrea lo spirito autentico di questo sport. Con la massima semplicità. Così, ogni sabato e domenica, quel pezzo di città si trasforma in una finestra aperta sul mondo. Tra un lancio e una battuta, tra un applauso improvvisato e uno sguardo curioso, si intrecciano storie di migrazione, di radici lontane e di integrazione silenziosa. Perché il cricket, anche su un campo improvvisato, non è solo uno sport: è il filo che lega culture diverse e che, almeno per qualche ora, sa rendere più vicina la casa che questi ragazzi hanno lasciato.
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