L'intervista
Mauro Bartolini (Foto Giancarlo Belfiore)
“Mi sento fortunato, ma non conosco scorciatoie: lavoro e studio tantissimo” esordisce Mauro Bartolini, imprenditore perugino, accogliendoci nel suo ufficio. Qui c’è un’energia contagiosa, sarà il bellissimo quadro dipinto da Lorenzo Fonda appeso alla parete davanti alla scrivania, le tante mazze da golf sparse per la stanza, i libri, le foto, il verde che si vede dal terrazzo. Ogni oggetto racconta tanto di una vita d’impresa e di passioni.
Classe 1964, Mauro Bartolini è un imprenditore visionario con i piedi ben piantati nella sua terra. Insieme al fratello Silvano ha dato vita a uno dei gruppi più solidi e dinamici dell’Umbria: il Barton Group. Una realtà che oggi conta 35 milioni di fatturato, circa 300 collaboratori, con tre settori di attività - telecomunicazioni, energia e ottica -. In più un quartier generale sui generis circondato da un parco di 4 ettari aperto al pubblico super attrezzato e, che non a caso, richiama i campi da golf scozzesi.
La sua storia imprenditoriale, iniziata nel 1988 con Il telefono, è anche una storia familiare. Perché tutto parte dal padre, che affidò ai figli una piccola azienda di elettrodomestici, e potrebbe continuare con la terza generazione che forse un giorno raccoglierà il testimone.
Ma Bartolini non è solo impresa: è anche comunità. Nel 2018, infatti, ha inaugurato il Barton Park, uno spazio verde restituito alla città, che in pochi anni è diventato un simbolo di rinascita e socialità. E poi, come già detto, c’è la passione personale, quasi un secondo amore: il golf.
- Partiamo dal Barton Group: com’è iniziata la vostra avventura?
Nel 1988 - racconta MauroBartolini -. Io e mio fratello Silvano, cinque anni più giovane di me, decidemmo di vendere la piccola azienda di elettrodomestici che ci aveva affidato nostro padre e di lanciarci in un settore nuovo: la telefonia. All’inizio eravamo in due, senza nessuno che ci aiutasse. Oggi contiamo oltre 300 collaboratori di cui circa 150 dipendenti diretti in tre settori: telecomunicazioni (Barton Point), energia (Barton Energy) e ottica (Claro). Una crescita enorme, che non era affatto scontata.
- Il passaggio dall’azienda del papà al nuovo progetto: fu più coraggio o incoscienza?
Un po’ di entrambi. Eravamo giovani, io avevo poco meno di trent’anni, Mio fratello poco più di venti. Non avevamo paura, anzi. Eravamo convinti che quel settore avrebbe avuto un grande sviluppo. E così è stato.
- Momenti difficili ne avete incontrati?
Tanti. Ogni settore ha i suoi alti e bassi. Nel 2010, ad esempio, abbiamo sentito forte l’esigenza di diversificare, perché la telefonia stava attraversando una fase di maturità complessa. E siamo entrati nel campo dell’ottica, sembra che con le telecomunicazione non c’entri nulla ma in verità ha dinamiche simili. La nostra forza è sempre stata la stessa: nei momenti più difficili trovare nuove idee. Dai periodi più duri sono nati i progetti migliori.
- Ottica, come siete presenti in questo settore?
Con il marchio Claro, abbiamo una quota di maggioranza. Siamo entrati nella start up in minoranza, all’epoca la sede era Pordenone con sei negozi. Ora il marchio è in tutta Italia.
- Qual è la filosofia che guida il Barton Group?
Delegare, responsabilizzare e guardare avanti. Abbiamo prime linee di assoluta qualità, con responsabilità chiare. Io oggi seguo meno l’operativo e più la parte strategica: cosa vogliamo essere tra cinque anni. Non puoi mai fermarti: o cresci o arretri. Ma oggi più che inseguire soltanto lo sviluppo, vogliamo consolidare e coinvolgere ancora di più i nostri collaboratori.
- La vostra sede è rimasta a Perugia, nonostante le difficoltà logistiche. Una scelta di cuore?
Assolutamente. L’Umbria è la nostra terra e non abbiamo mai pensato di spostarci. Certo, le infrastrutture sono carenti e questo pesa, ma è una regione meravigliosa per vivere e lavorare. E il Barton Park è nato anche per questo: per restituire qualcosa alla nostra comunità.
- Com’è nata l’idea del Barton Park?
Per caso. Cercavamo una sede e ci proposero una vecchia casa semidiroccata. Mi dissero che non era in vendita, che c’era un progetto per farci campi da calcio. Ma noi ce ne innamorammo. Nel 2012 l’abbiamo acquistata, poi tre anni di progettazioni e nel 2015 abbiamo aperto il cantiere. Il 2 settembre 2018 l’inaugurazione. Oggi è un luogo vissuto dai cittadini, ed è la soddisfazione più grande.
- Cosa si prova a lavorare in un posto così?
Ci si sente bene, molto bene. Qui tutto dà un’energia incredibile: vedere le tante famiglie che passeggiano nel parco, i giovani che ci vengono a studiare, le signore che si fanno le loro chiacchierate lungo i viali, chi fa sport, chi legge, chi ascolta la musica. Insomma, vedi i concittadini che si godono lo spazio e pensi: ne è valsa veramente la pena.
- Avete in mente un ampliamento?
Sì, il sogno è raddoppiare il parco. Non è semplice, ci sono ostacoli burocratici, ma non abbiamo smesso di crederci. E sarà un’area con spazi per lo sport
- Nel parco c’è un anfiteatro con una sua programmazione, vi interessa anche il settore dello spettacolo dal vivo?
Abbiamo iniziato a muoverci in questa direzione da alcuni anni, ora abbiamo creato la Fondazione Barton, un soggetto giuridico che si occupa proprio di questo e vogliamo andare avanti.
- Quanto conta la famiglia nel suo percorso?
Tutto. Senza la spinta iniziale di nostro padre non saremmo qui. Io e mio fratello lavoriamo insieme da più di trent’anni, sempre al 50%. È un legame forte, professionale e familiare. Oggi abbiamo cinque figli: tre femmine lui, due maschi io. Non sappiamo ancora se un giorno vorranno entrare in azienda. Non sarà un vincolo: se vorranno, bene, ma dovranno dimostrare di avere competenze.
- I suoi studi come hanno inciso sulla carriera?
Ho avuto una formazione tecnica, che mi è servita molto nella fase iniziale. Ma la verità è che la scuola più grande è stata il lavoro stesso. Fare impresa ti obbliga a imparare ogni giorno, a formarti costantemente. E ancora oggi continuo a studiare, aggiornarmi, confrontarmi.
- Veniamo al golf, il suo grande amore. Come è nato?
Per caso, come molte cose della mia vita. Un amico mi mise in mano un ferro e fu colpo di fulmine. Era l’inizio degli anni Novanta. Da allora non ho più smesso.
- Che cosa le dà il golf?
Equilibrio. È uno sport che ti obbliga a concentrarti, a misurarti con te stesso. Mi rilassa e mi ricarica. Certo, richiede tempo, e non ne ho quanto vorrei. In genere riesco a dedicargli cinque ore nel weekend. Ma quelle ore per me sono oro.
- Il campo più emozionante in cui ha giocato?
La Scozia. È lì che il golf è nato, ed è lì che respiri la vera essenza di questo sport. In un pub scozzese non guardano il calcio, guardano il golf. Lì capisci che è una cultura, non solo uno sport.
- Che cosa significa, per lei, essere imprenditore?
Responsabilità verso i collaboratori, verso la comunità, verso la famiglia.
- Mauro degli anni ’80 che cosa direbbe a quello di oggi?
Semplicemente bravo.
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