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L'INTERVENTO

Inchiesta urbanistica a Milano: dimettersi non basta, difendersi è sospetto

03 Agosto 2025, 13:16

Inchiesta urbanistica a Milano: dimettersi non basta, difendersi è sospetto

Giancarlo Tancredi, ex assessore all'Urbanistica Comune di Milano

C’è un dato che accomuna quasi tutti gli arrestati nell’inchiesta milanese sull’urbanistica: al momento dell’applicazione della misura cautelare, nessuno di loro - essendosi precedentemente dimesso - rivestiva incarichi pubblici o ruoli operativi. Eppure, sono stati ugualmente sottoposti agli arresti domiciliari, motivati dal pericolo di reiterazione del reato. Colpisce, in particolare, la posizione degli ex amministratori pubblici, raggiunti dalla misura nonostante Giancarlo Tancredi si sia dimesso da assessore all’Urbanistica, e Marinoni e Scandurra abbiano lasciato la Commissione paesaggio.

La Corte di Cassazione, in vicende analoghe, ha avuto modo di chiarire che, se è vero che le dimissioni non escludono di per sé le esigenze cautelari, impongono però al giudice un onere motivazionale rigoroso: occorre dimostrare, nel caso concreto, che l’indagato — pur privo dell’incarico — conservi una posizione effettiva e autonoma da cui reiterare condotte della stessa natura. Un’ordinanza cautelare è stata annullata, poiché gli elementi posti a sostegno della attualità del pericolo, quali “potere decisionale, rete di relazioni sociali, caratura politica e capacità di imporre soluzioni” non erano stati dal giudice “adeguatamente contestualizzati” alla luce delle dimissioni intervenute.

Analogamente, nell’ordinanza milanese, il pericolo di recidiva, ritenuto attuale nonostante le intervenute dimissioni, pare ancorato a valutazioni sguarnite della necessaria concretezza. Tancredi, si legge nell’ordinanza, potrebbe “continuare ad avvantaggiare persone” o “intervenire su progetti”, pur non essendo più in carica, sfruttando “le conoscenze acquisite in tanti anni trascorsi ad occuparsi dell’urbanistica milanese”. Non si comprende, francamente, come - una volta uscito dalla scena amministrativa - egli possa ancora incidere su decisioni pubbliche. Né pare seriamente dubitabile, nella fattispecie, che di allontanamento definitivo si tratti.

E in tutto ciò, come ne esce l’interrogatorio preventivo?
Concepito come strumento di garanzia, almeno nella vicenda milanese — primo vero banco di prova del nuovo istituto — sembra essersi ridotto a un passaggio meramente formale. Gli indagati, chiamati a difendersi in tempi compressi, con una conoscenza necessariamente approssimativa del quadro accusatorio, pur dimessisi da ogni incarico attinente ai fatti, si vedono comunque applicare la misura richiesta dalla procura, senza variazione alcuna.

La loro scelta di non confessare, di non “prendere le distanze”, diventa essa stessa indizio. Lo scrive senza incertezze il giudice: “Nessuno ha ammesso le proprie responsabilità, né tantomeno l’esistenza di un sistema”. Una strategia difensiva, sì, “legittima”, ma al tempo stesso “sintomatica”. Non collaborare equivale a non dissociarsi. E non dissociarsi equivale a rimanere parte del sistema. Difendersi, dunque, è già un sospetto. Non confessare, una conferma.

Così, l’interrogatorio preventivo, nato come presidio di tutela, si trasforma in un atto che rafforza la misura stessa. Non produce un autentico contraddittorio, ma finisce per conferire all’ordinanza un supplemento di autorevolezza: l’indagato ha “parlato”, dunque l’arresto è “fondato”.

Per quello che si profila come l’ennesimo caso di eterogenesi dei fini, la misura cautelare assume così sempre più la fisionomia di una sentenza anticipata. E l’opinione pubblica, ben prima del processo, assorbe e restituisce l’immagine di una colpevolezza già cristallizzata. La distinzione tra accusa e prova, tra ipotesi e verità, tra cautela e condanna, si assottiglia, ancora una volta, fino a dissolversi.

*Avvocato penalista

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