L'INTERVENTO
Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala
"Le mie mani sono pulite", ha dichiarato il sindaco di Milano. Una difesa legittima, certo. Ma anche l’evocazione di un’epopea giudiziaria che periodicamente riemerge ogni volta che l’accusa è di ‘corruzione’: quella di Mani Pulite, da molti ancora celebrata come stagione salvifica della Repubblica. E in effetti, Mani Pulite fu una svolta: rottura di un sistema di illegalità diffusa, dimostrazione che il controllo penale può estendersi anche alla classe dirigente, soddisfazione di una radicata domanda di giustizia egualitaria. Tuttavia, a trent’anni di distanza, i tempi sono maturi per ricordarne anche i limiti. Lo ha scritto con limpida sintesi Giovanni Fiandaca: Mani Pulite fu "un’impresa straordinaria, ma non esemplare". Straordinaria per la capacità di colpire un sistema consolidato di illegalità e impunità; non esemplare per le modalità talora adottate e per le tentazioni para-politiche che furono, almeno in parte, ad essa sottese.
Perché, se è vero che il diritto penale deve potersi applicare anche nei confronti dei ceti dirigenti, non per questo può essere piegato a strumento di bonifica etica. Ecco allora, in ordine sparso, cosa non dobbiamo augurarci di rivedere nella inchiesta attuale, come in quelle che verranno:
– l’uso della custodia cautelare – oggi, mutatis mutandis, dell’interrogatorio preventivo – come strumento di pressione per ottenere confessioni o dimissioni;
– la figura dell’avvocato accompagnatore, che subordina la difesa tecnica a un fine cooperativo di sistema;
– la simbiosi tra procura e stampa, dove il processo mediatico anticipa e condiziona quello giurisdizionale (se possibile, il nuovo strumento dell’interrogatorio preventivo, amplifica il rischio di condizionamento del GIP, che deve decidere se adottare o meno la misura cautelare richiesta nel pieno della bolla mediatica);
– l’uso disinvolto delle fattispecie (es. concussione in luogo di corruzione) per indurre alla confessione in cambio dello status di ‘vittima’;
– la sovraesposizione del pubblico ministero, investito del compito improprio di farsi interprete di un’istanza rigenerativa del sistema;
– l’idea - che tende a farsi fine - che si possano processare modelli, assetti, fenomeni, sistemi, invece di condotte penalmente rilevanti.
Forzature, interpretazioni creative, tentazioni di supplenza: ci furono, e non vanno taciute. Si verificarono però nel contesto - unico e, si spera, irripetibile - di uno scandalo di portata nazionale, che nulla toglie alla critica, ma qualcosa spiega: corruzione sistemica, classe politica fragilissima, consenso popolare verso la magistratura travolgente. A finire sul banco degli imputati era, per la prima volta, buona parte della classe dirigente italiana.
L’inchiesta milanese non presenta – né potrebbe – analoghe caratteristiche di illegalità generalizzata. E tuttavia, almeno a giudicare dalle notizie che oramai da una settimana occupano le pagine dei quotidiani, si intravede il rischio di esondazioni. Si parla di "modello Milano" come se fosse l’imputato. Si tende a presentare l’abuso da conflitto d’interesse lucrativo (abrogato) come la prova stessa del patto corruttivo. Si censurano i rapporti, in taluni casi fisiologici, tra amministrazione e impresa come collusivi. Non mancano sconfinamenti nella valutazione dell’urbanistica della città e nelle scelte di governo del territorio.
Ma il diritto penale non è né urbanista, né moralista. Non punisce scelte amministrative discutibili, conflitti di interesse disdicevoli. Sanziona – se accertato – un fatto-reato tipico, antigiuridico e colpevole. Nient’altro. Il giudice giudica fatti. Non fenomeni, non modelli di città. Si valutino dunque i singoli episodi, li si contesti, li si provi, li si giudichi. Ma nella consapevolezza che Milano e l’intero Paese più che di nuove imprese giudiziarie straordinarie, hanno bisogno di una giustizia ordinaria, fondata su legalità, proporzionalità e presunzione di innocenza.
*Avvocato penalista
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